IL DOPO SENZA DOMANI DI VITALIANO TREVISAN

Scrivere una missiva a chi ha deciso di scomparire in un vortice: si può? Caro Vitaliano Trevisan, avrei voluto interpellarti sapendo di trovare un uomo irrigidito, urtato come al solito, con la voce tremula, dall’accento veneto inconfondibile. Avresti detto poche cose, essenziali, un po’ fredde come il ferro e il metallo da lavoro. Non sei mai stato un uomo che ha parlato a fiume, concentrando su di sé l’attenzione come fanno gli scrittori vanitosi. Preferivi seguire uno schema mentale da riportare telegraficamente con tutti gli interlocutori, defilandoti da ogni discussione calorosa. Ho letto il testo inedito che correda la nuova versione del libro Works uscito da Einaudi, proprio adesso che non ci sei più per una scelta volontaria, terribile. L’anno scorso eri stato sottoposto a ricovero coatto in psichiatria e avevi raccontato la tua esperienza su “Repubblica”, descrivendola da “inviato speciale in incognito”. Ma non è su questo supplizio che voglio soffermarmi, piuttosto sul contenuto di Works. La tua prosa è ritmica e allarmata. Nel leggere del tuo Veneto ho pensato ancora alle mie Marche: due regioni che si assomigliano per storia e tradizione, per laboriosità e intraprendenza industriale negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Ci eravamo confrontati sulle similitudini. La trasformazione che hai vissuto lavorando nella tua terra è la stessa che ho verificato anch’io, ma tu in prima linea, perché prima di diventare scrittore di successo e sceneggiatore avevi fatto il gelataio, il lattoniere, il portiere di notte. Annoti nel tuo testamento letterario: “Il fatto è che il prima è durato troppo poco per fissarsi come parametro definitivo”. Il Veneto rurale è un ricordo, come le grandi fabbriche, i capannoni piccoli e medi, le nuove aree di espansione residenziale mimetizzate tra le case. Poi c’è stata la fase dei condomini, delle villette a schiera e delle zone artigianali. E infine l’età dei centri commerciali, delle rotatorie, delle piste ciclabili. “La pressione dell’urbanizzazione si avverte altrettanto fisicamente di quella atmosferica. L’erosione è costante e inesorabile. Il vuoto politico è sempre stato una costante, ma anziché essere riempito dall’iniziativa di una famiglia di industriali più o meno illuminati, viene invaso da una nuova stirpe di pseudotecnici che, nel rispettabile ruolo di intrallazzatori, assecondano il cieco e brutale e rozzo vitalismo”. Il mito della fabbrica è finito miseramente, come la figura del “capo” (così si dice dalle mie parti) che tu definisci “padrone”. Oggi esiste un gruppo di manager che detiene le multinazionali. So bene che è sopraggiunto l’inesorabile spegnimento “attraverso la progressiva delocalizzazione di ogni attività produttiva, la totale dismissione di ogni attività. Il tutto nel giro di circa dieci anni”. Nel 2022 operai e impiegati non sanno (non possono) riciclarsi.  E’ arrivato il tempo dell’inerzia e si aspetta la ripresa come una manna che scende dal cielo. E qui ti fermi, non dici altro. La tua constatazione è impietosa quanto impeccabile. Come cambierà, ancora una volta, il lavoro? Come si distribuirà la forza dei giovani nel territorio dove sono nati e dove vogliono continuare a vivere? Caro Vitaliano, sei stato un analista, oltre che uno scrittore, perché il tuo occhio ha passato in rassegna una situazione protratta per decenni e che forse si poteva evitare. Internazionalizzazione e delocalizzazione sono già un ulteriore passato. Dicono che la mondializzazione ci renda cittadini senza più confini e frontiere. Dunque, quale sarà il dopo? Non saprei immaginarlo, se non pensando che è finito anche ciò che hanno chiamato post-modernità senza capire che cosa significasse. Post-capitalismo e post-industrialismo: siamo postumi in un’agonia calmierata solo in parte dalla “somministrazione” degli ammortizzatori sociali e del reddito di cittadinanza. La salvaguardia dei livelli occupazionali non fa più riferimento alle risorse finanziarie di qualcuno, ma ad un indistinto patrimonio per una riqualificazione e una riconversione altrettanto indistinte. Le analisi di mercato non reggono l’equilibrio sociale e le parole svuotate di senso sono: incentivi, oneri, sostegni, mediazioni, patti ecc. Hanno detto che la tua “voce chiara e abrasiva” ha smascherato la provincia, un’anima diffusamente malata. Siamo in un eterno apprendistato nel quale la tua presenza tra le “gigantesche betoniere” sarebbe stata un pungolo indispensabile nella “deriva senza pace”, nel dopo e nel domani di chi vorrebbe rimanere un viaggiatore residente. Caro Vitaliano, caro disturbatore di coscienze: il tuo Veneto ti piange e i tuoi lettori non ti perdonano. Ci mancherà la nuda semplicità dei tuoi scritti, l’esplorazione di altri works. Ti saluto con pochi versi di David Maria Turoldo, sacerdote e teologo, oltre che grande poeta: “E’ la memoria una distesa / di campi assopiti / e i ricordi in essa / chiomati di nebbia e di sole”.

Alessandro Moscè

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