E SE NON SI MORISSE UNA VOLTA SOLA?

Il poeta Giovanni Raboni parlò esplicitamente di comunione tra i vivi e i morti, che nella poesia è stato un tema ricorrente durante tutto il Novecento italiano (Umberto Saba, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Bartolo Cattafi, David Maria Turoldo, Roberto Carifi). Il limite della morte, come se lo scrittore fosse un dio, viene superato abbattendo la barriera spazio-tempo, ma non siamo nella fantascienza, in un viaggio interstellare. I morti tornano, o non se ne sono mai andati, Non indugiano, arrivano, si fanno vedere e sentire. Da Pantheon. Le ragioni della vita (intervista a Giovanni Raboni, Rai Nettuno Sat 1, 4 gennaio 2004): “Ho cominciato a riflettere sulla morte con la scomparsa prima di mio padre e poi di mia madre. E quindi era in un certo senso la morte degli altri, era la morte come scomparsa di persone care, di riferimenti indispensabili. Col tempo, credo naturalmente, è diventata la riflessione sulla mia morte, su che cosa significa, su che cosa significherà. Si è fatta sempre più forte in me l’idea della comunione dei vivi e dei morti, per dirla in modo sintetico. Cioè non faccio più molta distinzione tra vivi e morti, non soltanto nelle persone della famiglia ma nelle persone care, negli amici che a un certo punto scompaiono. Io non li sento, devo dire la verità, più lontani di quando erano vivi”. E se andassimo al di là della sola memoria per coniugare un tempo privo di incrinature, senza un reale, conclusivo distacco? Se i morti fossero raggiungibili, se ci potessero addirittura parlare? Il narratore Maurizio Torchio, con L’invulnerabile altrove (Einaudi 2021) fa abitare la morte nella testa di una donna. O meglio, un’altra donna, Anna, morta da più di cento anni, si insinua nei pensieri della persona viva ed entrambe avvertono una dualità frastornante. I morti che accompagnano Anna non sono da nessuna parte, camminano prima che faccia buio tra la sabbia mossa dal vento in un deserto ignoto, solcato dai fiumi, che si sposta in continuazione, con il bianco opaco del cielo  che si colora di viola e le dune che si accendono di arancione. Forse la morte è una malattia dalla quale non si guarisce, che non si può gestire. Le due donne si incontrano, sembrano inseparabili nel loro orizzonte che oscilla, “come due che si raccontano storie di paura intorno al fuoco”. Inevitabilmente si assomigliano, e Anna incomincia a confidarsi, a raccontare di sé. Da ragazza, a Londra, costruiva le scatole di fiammiferi, faceva figli e scappava dalla povertà, si sentiva umiliata anche il giorno in cui fu offerta ai poveri la cena dell’incoronazione, il 5 luglio 1902. L’altra ha un fidanzato e un amante che incontra a casa della zia, dove trova i baccalà appesi ad un filo, a testa in giù. Ma attenzione: il lutto non è una cosa dell’aldiquà, fa soffrire anche nell’aldilà, dove si continua a scomparire. E se non si morisse una volta sola? “I morti hanno sempre una seconda possibilità. E poi una terza, una quarta”. Ci si risveglierà o si morirà per sempre nella metamorfosi di una dimensione aggiuntiva? La morte, questa sconosciuta, misteriosa, oscura, invulnerabile verità, come la definiva Louis-Ferdinand Céline (il contrario dell’ebbrezza del vivere). L’altrove o il nulla? Un’entità spirituale o il baratro? Una condizione irreparabile o una sorpresa infinita? Per chi non ha fede, la morte si finisce per accettare come terminale della stanchezza fisica, di ogni male terreno? “Quei momenti in cui sparire per sempre ci sembra impossibile”, scriveva Emil Cioran. La consapevolezza della morte ci terrorizza, come tutto ciò che non conosciamo. Il narratore, in questo caso, è un consolatore: per questo Maurizio Torchio non fa morire la morte, nell’estremo tentativo di salvare i corpi, le voci, le età. In fondo la propria morte è irrappresentabile, sosteneva Sigmund Freud, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo costatare che continuiamo ad essere presenti come spettatori. Dunque, che cosa rimane  nel malinconico luogo di Maurizio Torchio, in un flebile sogno notturno e nell’interrogazione incerta sul  dopo, al supermercato facendo la spesa, come succede alla protagonista del libro che afferra il sale a poco prezzo da una scansia? Cosa possiamo dire, tutti noi, anche chi non legge, chi non prega, chi ha una visione agnostica, chi è giovane, chi anziano, chi in salute, chi piegato dal dolore, europeo, africano, asiatico? A che cosa assomiglia la morte, rispetto a ciò che sperimentiamo? Ad un sonno eterno, alla perdita dei sensi. Ci preoccupa, come ogni impegno che non vorremmo mantenere. Ho provato qualcosa del genere mentre da bambino mi iniettavano l’anestetico in una sala operatoria, sotto la luce accecante di lampade che illuminavano la sala. Un cugino chirurgo mi faceva domande, ma ad un certo punto la bocca si è chiusa a tenaglia e le braccia non si muovevano più. Quella era la copia, la riproduzione della morte. Il preludio dell’incoscienza, della pietà racchiusa in un volto senza più sguardo.

Alessandro Moscè

 

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