ERO DI QUESTO MONDO E DI UN ALTRO

Prefazione

“La morte è grande. / Noi siamo i suoi figli e sulle labbra / abbiamo un sorriso” sono i versi che conchiudono il libro delle immagini di Rainer Maria Rilke, e credo siano i più adeguati per introdurre questa breve nota alla nuova pubblicazione di Alessandro Moscè, dal titolo Per sempre vivi.
Potrebbe sembrare un controsenso, una contraddizione in termini; il titolo della raccolta sembra rinviare ad una vitalità senza compromessi, proiettata in un tempo illimitato, sia nel volerne leggere il significato letterale come apposizione, sia nel voler, invece, protendere verso l’accezione esortativa, dove il “vivi” non è aggettivo, ma, pur nella forma imperativa, si pone come un invito.
Sarà opportuno tentare una ricostruzione a ritroso: ed è proprio nelle ultime due sezioni del libro che è più presente la morte, pur con accezioni assai peculiari.
Ne “La guarigione”, infatti, l’autore ci coinvolge nella propria esperienza di un male terribile, quasi certamente fatale, a cui è miracolosamente sopravvissuto. Con esso è maturata la coscienza del dolore, della condivisione dell’orrore della malattia, della precarietà e della perdita, ma anche la speranza di poter superare tutto questo, pur senza mai separarsene davvero, e il desiderio di poter nuovamente correre con la disperata euforia della giovinezza, abbracciando appieno il vivere nel mondo e in relazione.
Già in queste poche righe appare evidente il perché del richiamo ai versi di Rilke; l’esperienza della morte diventa accoglienza pura dell’esperienza dell’esserci, diventa persuasione assoluta della necessità di essere nel vivere in ogni istante che resta, proprio per il suo valore temporaneo e fragile: parafrasando, “siamo i figli della morte, e – proprio per questo – non possiamo che sorridere”: abbiamo il dovere di farlo, si potrebbe insinuare.
Ma continuiamo il nostro percorso à rebours: in “Dialoghi con mio padre”, in una prosa dialogica di particolare calore umano, si affronta il tema del dialogo con chi è venuto a mancare, e attraverso tale occasione “narrativa”, il tema del post mortem.
“I miti sono fantasie”, chiosa il padre, e alla domanda “A cosa devo credere?” la risposta arriva certa: “A ciò che non sai.”
I testi qui non fanno che rinviare alla vita, come se proprio il non esserci, attraverso l’espediente del dialogo con il padre venuto a mancare, non faccia che esortare chi resta a concentrarsi sul vivere, sul presente, piuttosto che sui ricordi di ciò che è perduto, o sulla fantasia speculativa di ciò che avverrà – eventualmente – oltre la vita. L’operazione viene svolta con maestria di semplicità, lì dove il rischio era proprio quello di incagliarsi in astrazioni di labirintica ed inutile complicazione.
“Silenzi”, “Sogni” ed “Apparizioni”, infine, sono le tre sezioni introduttive della raccolta, e appaiono come quelle più ricche di elementi quotidiani, vitali, dove il senso del luogo, con novizia di dettagli, si intesse a quello delle relazioni, familiari e non, con uno slancio vivacissimo verso un voler prendere a piene mani il frutto dell’istante, per non sprecare neanche un momento – nonostante non manchino gli attimi di riflessione nostalgica, o malinconica (ma anche questo è consegnarsi al vivi del titolo).
Ecco che, come auguro, la ragione di questo percorso appare chiara e, tornando alle battute introduttive, il significato del titolo di quest’opera si arricchisce di sfumature: per sempre vivi può riferirsi alle persone care che abbiamo perduto, come può anche sembrare, nell’accezione di persistenza degli affetti nella memoria; può riferirsi a noi uomini che qui, rimasti, siamo e abbiamo il preciso dovere di ricordare in ogni momento che concentrarci sul prezioso valore dell’attimo è necessario, essenziale, doveroso.
Può essere, infine, un’esortazione categorica rivolta a sé stessi, e al lettore, proprio per ricordare tutto questo, e che in ogni singolo attimo del proprio essere, nel proprio tempo e oltre il proprio tempo – persistendo nella memoria di chi resta, per sempre – quello di vivere è e resta un compito cui consacrarsi con dedizione assoluta e incondizionata.
Tale consapevolezza è inevitabilmente figlia della prossimità con la morte, proprio perché l’esperienza della fine è la cosa che più di ogni altra consente di tracciare il perimetro dettagliato del fragile e prezioso mistero dell’esserci; e ciò si intende sia nella prossimità con la propria finitudine che con quella delle persone che ci sono più care.
Concluderò tornando all’allusione del principio, senza voler necessariamente riportare le conseguenze logiche di ciascuna premessa; questo è più opportuno che ciascun lettore lo faccia secondo la propria suggestione. Per quel che mi riguarda, citerò i versi che precedono, nel medesimo testo, quelli che ho richiamato in apertura, di Rainer Maria Rilke:
“Tu sai / come fioriscono i mandorli / e l’azzurro dei mari […] e tutte queste cose tu hai sentito, / (oh, come l’infinita tua umiltà / dall’immenso corruccio fu toccata)”.

Mario Famularo

 

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