ROBERTO PAZZI IMPERATORE DELLA LETTERATURA

Lo scrittore Roberto Pazzi se ne è andato nella sua Ferrara a 77 anni (era nato ad Ameglia, in Liguria, nel 1946) dopo l’insorgere di una malattia dalla quale sembrava essersi temporaneamente ripreso. Raggiunse la grande notorietà fin dal suo esordio narrativo, nel 1985, con Cercando l’Imperatore, edito dall’editore Marietti. Seguirono, tra gli altri romanzi, La principessa e il drago (Garzanti, 1986), Vangelo di Giuda (Garzanti, 1989), La stanza sull’acqua (Garzanti, 1991), Domani sarò Re (Longanesi, 1997), Conclave (Frassinelli, 2001), Il signore degli occhi (Frassinelli, 2004), Qualcuno mi insegue (Frassinelli, 2007), La trasparenza del buio (Bompiani, 2014), Verso Sant’Elena (Bompiani, 2019), Hotel Padreterno (La nave di Teseo, 2021). Tra qualche giorno uscirà, postumo, La doppia vista per la Nave di Teseo. Le sue opere narrative sono state tradotte in ben 26 lingue. Ha vinto numerosi premi, tra cui il LericiPea, il Premio Selezione Campiello e il Flaiano. Come poeta ha dato alle stampe varie raccolte: Il re, le parole (Lacaita, 1980), Calma di vento (Garzanti, 1987), La gravità dei corpi (Palomar, 1998), Talismani (Marietti, 2003), Felicità di perdersi (Barbera, 2013). Dopo dodici anni di collaborazione esclusiva al “Corriere della Sera” è stato opinionista di “QN Quotidiano Nazionale” (“Il Giorno”, Il Resto del Carlino”, “La Nazione”) e collaboratore di “The New York Times”.
Roberto Pazzi aveva davvero un volto da imperatore come quello di Nicola II, l’ultimo zar di Russia della famiglia dei Romanov con l’uniforme da cosacco. La barba curata, lo sguardo acceso, il portamento blasonato, la voce persuasiva di chi aspetta solo di essere incoronato, nella finzione scenica, da una dinastia centenaria. Eppure il romanziere visionario e fantasmagorico si è sempre immedesimato nei vinti, in chi la storia non la scrive mai: compreso Napoleone in esilio, un papa prossimo alla morte, un presidente del consiglio facilmente riconoscibile rifugiatosi in convento. Un aspetto cruciale che ha contraddistinto la scrittura di Pazzi è l’amore per il mito e la sacralità laica e religiosa dei grandi protagonisti della storia: Cesarione, Cleopatra, Cristo, Lazzaro. Amava la sua Ferrara, che compare spesso specie nei testi poetici. Il desiderio di fuga e di ritorno lo avevano convinto ad una residenza attiva nella provincia dove il tempo scorre più lentamente. Da Un giorno senza sera (La nave di Teseo, 2020), antologia personale di poesia 1966-2019: “Meste paiono le tue bellissime pietre / se non fosse per i disegni dei bambini / che le tentano a destarsi nelle scuole: / ascoltano le piccole teste il racconto / di un’altra Ferrara / riflessa nelle acque dei canali / che non ci sono più”.
Roberto Pazzi, come tutti i grandi scrittori, aveva l’ossessione della morte, che “frequentava” rovesciando la paura nel mistero, la finitudine umana nel desiderio, anche mediante un’oralità drammaturgica, come annotò Alberto Bertoni, mettendo in luce un Eden onirico e plurisensoriale nel transfert universale, assoluto. Se Adorno chiedeva “perché sono nato se devo morire?”, Pazzi sosteneva che “l’eternità sarebbe la noiosa ripetizione di tutto”. Uno scrittore può essere forgiato dal sogno che conduce all’inevitabile morte. Del resto Dante immaginò l’aldilà proprio per saperne di più, per non soffocare nel presente e nelle sue regole. Pazzi è stato capace di entrare nel dubbio eterno, quello precluso a chiunque non sia munito di profetismo e imprevedibilità. In Qualcuno mi insegue riaffermò la vita dialogando con la morte esortato da una costante: voler anticipare il finale, svelare ogni segreto. Colgo un passo tra i più avvincenti: “La sua voce sembrò tradire un attimo di debolezza, ma subito ritrovò la consueta arroganza. Comunque non era la parola giusta quella che stava quasi per dire. Io non sono la morte. Sono la sua morte. Che è una cosa ben diversa. Non potrei mai, mai deluderla, comportandomi con lei come con tutti gli altri. Lei ne sognava una diversa da quella che si concede a tanti, tutta e soltanto sua”.
La formazione giovanile di Pazzi all’università di Bologna, dove si laureò in estetica, fu attraversata dalla conoscenza dei corsi di Luciano Anceschi, ma il ferrarese amava Umberto Saba e la poesia onesta, esperienziale, non lo sperimentalismo e l’avanguardia. Il suo vero maestro fu Vittorio Sereni, schivo e tormentato dalla sorveglianza morale della scrittura e con il quale intrattenne un lungo epistolario. Roberto Pazzi era uno straordinario conversatore e ascoltarlo significava assorbirne la provocazione nell’esuberanza delle citazioni da Omero, Shakespeare, Proust, Dostoevskij, Bulgakov, Marquez, Borges, Poe, Yourcenar, Buzzati, Baudelaire. Una volta lo intervistai e gli chiesi quanti scrittori di rango avesse conosciuto. Mi fece rapidamente la lista: Montale, Moravia, Amado, Tournier, Green, Raboni, Piovene, Parise, Pratolini, Bassani. Citò l’editore Livio Garzanti. Precisò che a Bassani, ferrarese, non doveva nulla. Pazzi, in effetti, non è mai stato un elegiaco della memoria. Il suo riferimento ferrarese fu il grande  Lodovico Ariosto. “Alla scrittura ho chiesto di risarcirmi della mia vita evadendo nell’epico”, mi confidò.
Devo molto a Roberto Pazzi, che ebbe l’ardire di scrivere sul “QN Quotidiano Nazionale” che il mio romanzo Il talento della malattia (Avagliano, 2012) avrebbe meritato il Premio Strega. Fece una generosa recensione a tutta pagina che mi permise di essere conosciuto al grande pubblico, da Milano a Firenze, a Bologna. Recensione che venne ripresa da un paio di giornali nazionali e dalla Rai. “Una sfida ai confini della vita”, titolò il suo lungo articolo. Il libro gli era piaciuto per la forza di incapsulare la personale resistenza alla malattia con la passione travolgente ed eroica per un campione dello sport. Del resto Pazzi ci ha dimostrato che la nascita, la malattia, il tempo e la morte sono il nutrimento della letteratura in una significazione irrevocabile, senza voltarsi indietro, una volta spezzato il sortilegio e una volta conosciuto ciò che ci è impedito di sapere da vivi. L’io parziale, corporeo, ascende, cambia struttura. Non c’è più bisogno di dire e di ascoltare, di comprendere e di farsi comprendere. La verità lievitata del mondo può essere tradotta in un testamento scritto di pugno: “Dove la storia non passa / nasce dal nulla / la santità di non attendere più”.
Romanzo e poesia sono tentate dall’apologo e la narrativa può aspirare al canto. L’ho appreso da Roberto Pazzi e ne ho seguito l’esempio fin da ragazzo. Abbiamo spesso parlato delle nostre ombre e mi suggeriva consigli per i miei romanzi che gli inviavo dopo la seconda stesura. Leggeva le sue poesie al telefono, dallo studio di Ferrara in via Contrada della Rosa, appena aveva finito di scriverle e di recitarle ad alta voce affacciandosi alla finestra, anche d’inverno. Come quella volta che esordì con tono attoriale: “Dovrei dire d’aver capito / il senso del tutto sull’orlo del nulla / e invece non mi è ancora chiaro, / come da ragazzo / quando di tempo ne avevo tanto / da non patire l’ansia di sprecarlo”. Alla fine si si tende sempre all’eterna giovinezza. Aveva ragione l’imperatore Roberto Pazzi: la maggiore aspirazione dell’uomo è quella di volare, di ingannare gli anni, perfino di vedere Dio.

Alessandro Moscè

 

Tags from the story
,
0 replies on “ROBERTO PAZZI IMPERATORE DELLA LETTERATURA”