LE MARCHE POETICHE OLTRE IL NOVECENTO

Le Marche: che senso ha vivere qui, in un luogo metatemporale come la poesia del grande Giacomo Leopardi? Già Carlo Bo, nel 1939, sulla rivista “Frontespizio”, rimarcava i capisaldi di una condizione umana e non di una professione nel saggio Letteratura come vita (dal 1947 al 2001, ininterrottamente, fu rettore dell’Università di Urbino). Ma solo nei primi anni Ottanta, con il magistero del poeta anconetano Franco Scataglini (uno dei maggiori del secondo Novecento), venne coniato il concetto di “residenza”, assorbito insieme ai sodali Francesco Scarabicchi, Gianni D’Elia e Massimo Raffaeli. Scrivere come “gesto di conoscenza e ricerca” in una vitale “solitudine geografica”. Questa residenza confluì nella rubrica radiofonica prodotta dalla Rai delle Marche: la stanzialità dei poeti e degli scrittori aveva sostituito la diaspora. Nacquero appuntamenti e letture con Mario Luzi, Paolo Volponi, Antonio Porta, Giovanni Raboni, Giorgio Caproni, Carlo Betocchi, David Maria Turoldo. Franco Scataglini affermava nel testo “L’aliquid della Residenza”, contenuto nel volume collettivo Poesia diffusa (Shakespeare & Company 1981): “Io ho cercato di mettere, come si suol dire, a punto la premonizione che portavo in me dell’idea di residenza e che mi viene da un passo di Adorno in cui esplicitamente si parla di intellettuale residenziale in relazione al rapporto di Kant con la sua piccola Königsberg prefigurante, come in una miniatura. Per inverarsi la conciliazione deve investire il piano della praxis e liberare dalla rimozione ciò che la ratio dominante lascia cadere fuori di sé stessa perpetuando la struttura alienante dell’uomo. Ora il tema della residenza ritaglia ed enuclea metaforicamente solo un parziale (almeno in apparenza) di tale vasta ed impervia questione, ridomandando il senso del luogo per illuminare il senso del rapporto dell’uomo con il mondo. Dove vivi ogni giorno e ciò di cui vivi che costituisce con il tuo corpo la tua identità profonda: un luogo alienato, si capisce, come tutti i luoghi della terra, senonché l’alienazione è dell’uomo e nei luoghi, anche i più desolati, c’è sempre un’ombra di beatitudine immemore”. La testimonianza del secolo breve, lacerato e conflittuale, ha corroborato la crescita spirituale dei poeti nell’autocoscienza, nel privilegio e nell’angoscia del concetto di spazio-tempo, nella denuncia del dolore e insieme nel bisogno di sopravvivere in una marginalità sociale e in un sussulto terrigeno, di tipo esistenziale. Lo stesso assunto valeva per Remo Pagnanelli (che operò nelle Marche con l’amico Guido Garufi) e Ferruccio Benzoni. Quest’ultimo, in particolare, conservò una memoria storica con una luce e un’ombra aggettate da un’altra dimensione (immaginifica), dall’inverno allegorico, dal luogo dove stabilire un dialogo con gli assenti. Alla residenza anconetana di Scataglini, Scarabicchi, D’Elia e Raffaeli corrispondeva, negli anni Ottanta, “Sul Porto”, la rivista cartacea di Cesenatico (con Benzoni, Stefano Simoncelli e Walter Valeri), che dimostrava, una volta di più, come la periferia geografica potesse diventare, d’incanto, centro poetico. Benzoni e gli altri, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ebbero rapporti continui e proficui con Vittorio Sereni, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci, Giovanni Giudici e Giovanni Raboni. Cosa rimane nel 2022 della geografia e della storia della letteratura italiana a partire dai piccoli centri, secondo l’intuizione originaria di Carlo Dionisotti (del 1949), che segnò profondamente l’italianistica e la riflessione d’insieme sulla genesi e sugli sviluppi della letteratura italiana dal Duecento all’età contemporanea? Ce lo dice il poeta e critico maceratese Guido Garufi nell’esaustivo volume antologico La Poesia delle Marche. Il Novecento e oltre (Affinità Elettive 2021), in cui connette mirabilmente la conservazione di un senso melodico, lirico, tradizionale, alle nuove tendenze e variabili di stile, lingua e tematiche, nella frammentazione determinata dalla società liquida, veloce, in cui la notizia rapida ha soppiantato la conoscenza, l’approfondimento e la meditazione. Uno sguardo sui testi senza la storia, è come camminare per un miope senza occhiali. Si finisce per sbandare, suggerisce Garufi. La supposta linea marchigiana fu indicata dal primo antologista Carlo Antognini, che tentò una schedatura nel volume Poeti marchigiani del ‘900 (Bucciarelli 1965). Qualche anno più tardi lo stesso Garufi e Pagnanelli segnalavano la conservazione di un “classicismo non classicistico”, una novità non sperimentale definita anche “avanguardia a ritroso”, che tuttavia può essere agganciata ai nostri tempi, in cui la variante fondamentale è determinata dalla velocità e dalla contrazione del tempo, una velocità non di apprendimento ma di comunicazione, piatta, omogenea, che si situa nella vulgata planetaria, che inaugura una neolingua flessibile e a “tolleranza zero”. Ha ragione Guido Garufi quando sottolinea che le Marche sono ancora letterariamente resistenti, riflessive, che i poeti, stando alle nuove generazioni, rappresentano nel terzo millennio una “conservazione attiva”, quel filo di fedeltà in equilibrio tra invenzione e tradizione. E in queste nuove generazione Garufi attesta di aver rivisto la quotidianità di Umberto Saba, la pietà di Pier Paolo Pasolini, l’efficacia dialogante e gnomica di Mario Luzi, “una vasta raggiera di satelliti e spiriti guida”.

Alessandro Moscè

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