L’ESILIO DEI NARRATORI E DEI POETI

La letteratura italiana va a passo lento, pigramente. Spesso si ha l’impressione che i narratori e i poeti scrivendo di sé scrivano per sé stessi, in un autocompiacimento ostentato che ripete l’operatività tecnica su schemi rituali. Lo scrittore lavora a compartimenti stagni, al punto da poter sostenere la totale mancanza di versatilità dell’intellettuale, termine, quest’ultimo, di fatto scomparso nel linguaggio comune e soprattutto nella pratica di chi fa della parola il mezzo per esprimere una visione del mondo. Eppure, solo attenendoci agli ultimi cinquant’anni, ci sono stati autori ambivalenti, duttili, che del mondo hanno offerto, praticando più generi, una decifrazione del periodo storico che vivevano: poeti, romanzieri, critici di costume, sceneggiatori come Giorgio Bassani, Paolo Volponi, Tonino Guerra, Alberto Bevilacqua ecc. Nel 2022 cosa pensa un poeta oltre i suoi versi racchiusi in un libro che circola per lo più in edizioni limitate? Cosa immagina un narratore oltre il classico Bildungsroman e nel canovaccio piccolo-borghese della sua storia? Non lo sappiamo. Una volta Franco Cordelli mi disse, con una pungente affermazione, che nei più giovani, anche bravissimi, manca completamente un retroterra culturale. E l’assenza di strumenti critici colpisce di più nella poesia, un genere colto. Pian piano i poeti hanno cessato di essere intellettuali. Ed anche per questo hanno perso un ruolo pubblico. “In Italia la critica letteraria è stata sostituita dalla pubblicità”, fu l’esclamazione risentita di Cordelli. Nell’ottobre del 2018 scrivevo, richiamando un articolo di Roberto Righetto apparso sulle pagine di “Avvenire”, del bisogno di una resistenza contro tutto ciò che passa sotto il motto della propaganda. L’intellettuale senza orientamento è l’uomo del non: non reazionario, non illuminista, non riformista, non progressista, non liberale: dunque, né organico, né dissidente, ma in via di estinzione. La migliore considerazione la offriva, nel 2018, Roberto Cotroneo nello splendido romanzo Niente di personale (La nave di Teseo): “Forse non si poteva prevedere ma è accaduto. E’ accaduto che i mondi interiori si sono riversati nelle strade del social network, che la democrazia è finita nel web, che i grandi autori sono sempre citati in modo sbagliato, che nessuno vuole più sapere, ma tutti vogliono essere”. Essere per un principio effimero, insufficiente. Bisogna tornare a ragionare di teorie, di idee, a trascrivere il reale contro gli stereotipi di massa. Bisogna uscire dall’anacronismo. Alberto Moravia interveniva moltissimo sull’ambiente, sulla salute, sulla politica internazionale, sui diritti umani, sulla tutela delle minoranze. Uno degli aspetti più noti della mobilitazione determinata dalla Grande Guerra fu la partecipazione del mondo dell’arte di Filippo Tommaso Marinetti e di Giuseppe Ungaretti. Più indietro nel tempo c’è stato Gabriele D’Annunzio con il suo agire così imperioso. Oggi segnaliamo Angelo Ferracuti, marchigiano di Fermo, per i suoi intensi reportage di viaggio pubblicati sul “Corriere della Sera”, su “Repubblica” e su vari inserti culturali. Dall’Amazzonia ai luoghi del terremoto nel centro Italia, alle storie dei migranti, indietro nel tempo fino a libri come Il costo della vita (Einaudi, 2013) sulla tragedia avvenuta nel 1987 ai cantieri Mecnavi di Ravenna in cui persero la vita tredici operai. “La realtà che combatte la finzione, ciò che nella vita non siamo”, dice Ferracuti. L’impegno, nel secolo post-ideologico, non necessariamente deve essere civile. L’esilio dell’intellettuale ha a che vedere con il diniego ad intervenire sul presente, sull’attualità, con il capire come si muove la società eterogenea, come cambia e che cosa chiede. Dietro l’immagine del narratore e del poeta c’è un baratro di interessi. Che gli scrittori tornino ad essere osservatori, portatori di un giudizio, di un occhio clinico nelle scienze umane.

Alessandro Moscè

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