DA DOVE ARRIVA L’IMMAGINAZIONE?

Spesso mi sono chiesto da dove arriva l’immaginazione. Non saprei dirlo così su due piedi. Sono consapevole, però, che se ho scritto e scrivo poesie e romanzi lo devo in primo luogo all’immaginazione, con la quale si parte per arrivare ovunque. Certamente lo scrittore non può essere solo uno che sa modellare le parole e trovare la sintonia, la giustapposizione di soggetti e predicati verbali, di aggettivi in un bel dire. Lo scrittore deve inventare, deve far lavorare fervidamente la fantasia. Spesso questo aspetto imprescindibile, così ovvio, viene trascurato da chi segna una linea di demarcazione tra un’opera letteraria e ciò che un’opera letteraria non è. Dunque, che cosa non è un’opera letteraria, tanto per sgombrare il campo dagli equivoci? Non è una ricostruzione di fatti seguendo un andamento emotivo superficiale, peggio ancora banale, di chi si sfoga ricostruendo la parte affranta di sé per annodare un filo spezzato. Non è un’opera letteraria la scrittura di getto, il senso di un’annotazione nella frenesia di appuntare qualunque cosa accada come succede nei diari degli adolescenti. Non è un’opera letteraria la scrittura di chi non ha una formazione innanzitutto di lettore, che pertanto non riuscirebbe ad imbastire una storia. Si deve saper contare sui ferri del mestiere, ci mancherebbe. Anche nella poesia non basta la retorica, ma è necessario accordare un suono, un ritmo. Tuttavia se non si sviluppa l’immaginazione non si avrebbe nulla da dire e un dattiloscritto risulterebbe solo un pretesto, un vezzo. Fermo restando che esistono narratori di qualità, narratori eccezionali, narratori unici, così come narratori che rientrano in una fascia media. Esistono gli scrittori mediocri, come i poeti mediocri. Ma qui si aprirebbe un capitolo infinito che non sapremmo mai chiudere. Torniamo al dunque: da dove arriva l’immaginazione, la folgorazione, il colpo di pistola ai blocchi di partenza? Mi ha appassionato, in proposito, lo “scambio di vite” tra Lisa Ginzburg ed Emanuele Trevi che hanno dibattuto nel periodico “Review” del quotidiano “Il Foglio” (27 novembre 2021). La strada da percorrere sarebbe quella del silenzio. Un silenzio che fa rumore, che si può dire alimenti, nutra, sostenga l’immaginazione. Un silenzio che corrisponde ad una voce, secondo Trevi e ad un dolore, stando alle considerazioni di Ginzburg. Avere un interlocutore privilegiato, un confidente, uno stesso dialogo muto, aiuta. La “traccia silente”, dice Lisa Ginzburg, è quella con i morti che ci sono sempre. Ne sono convinto anch’io. Cesare Garboli, in proposito, sosteneva: “Continuo a vivere con gli amici che sono morti. Il lunedì mi sono simpatici e il sabato può capitare che li detesto. Cambiano, e se cambiano vuol dire che sono vivo” (anni fa ho trascritto in un quaderno questa bella affermazione, ma senza citare, ahimè, la fonte). Tante volte ho sperimentato questa verità sulla mia pelle. Mio padre che non c’è più mi ha “costretto” a scrivere una sezione della mia ultima raccolta poetica La vestaglia del padre (uscita da Aragno nel 2019). Lo rincorro anche quando non c’ero, prima della mia nascita, a Roma, tra Vigna Clara e i Fori Imperiali, sotto il colonnato del Bernini e dinanzi allo stadio Olimpico. I nonni mi parlano, mi convocano ad una tavola da pranzo. Ed è una specie di febbre che non mi lascia. Il ricordo si accende, esplode tra i luoghi domestici e gli spazi aperti. La visionarietà mi consente di collocarli nel presente, nel giardino pubblico di Fabriano o sulla spiaggia di Porto Recanati, in via Pizzecolli ad Ancona o sotto la Rocca Roveresca di Senigallia. I morti tornano, come gli assenti, si muovono con i vivi, si mescolano, e quando li lasci sai che li ritroverai. E’ vero ciò che dice Emanuele Trevi: nella vita si va avanti tornando indietro. Cosa saremmo se non ascoltassimo il miracolo della voce umana e non la imitassimo? Il silenzio della letteratura e per la letteratura è un’ombra che ci accompagna. L’immaginazione risulta anacronistica, per cui va in fondo alla notte, ad ogni buio, per gestire un tempo passato, un tempo remoto. In questo modo si consente ai sensi di deragliare, di raccogliere tutto ciò che è stato e non sarà più, ma che la scrittura salva miracolosamente. Basterebbe leggere alcuni passi di Le menzogne della notte (Bompiani 1988) di Gesualdo Bufalino per rendersene conto a pieno. O versi come questi, di Mario Luzi, tratti dalla splendida raccolta Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime (Garzanti 2009): “Si scioglievano / l’uno dall’altro i due / e ogni altro compresente, / si perdevano sì / però si ritrovavano / perduti nell’infinito della perdita – / era quello il sogno umano / della pura assolutezza”. La genesi dell’immaginazione è nella salvezza delle cose perdute superato il limite della finitudine, di ogni materia degradabile.

Alessandro Moscè

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