PIETRO CITATI: LEOPARDI, LA MORTE E L’INDIFFERENZA

Cosa si prova quando si sta per morire? Ci accorgiamo che ce ne stiamo andando, che si sta affievolendo ogni processo biologico del corpo? Oppure siamo talmente oppressi fisicamente e confusi mentalmente, da non renderci conto di quello che succede, indipendentemente dal nostro volere? Siamo spettatori presenti o assenti della morte? Ha ragione Giacomo Leopardi, per cui la morte non sarebbe che un grande sonno che anestetizza i sensi, e tutto ciò che la precede non può risultare una sensazione violenta? L’anticamera della morte scopre un momento di insensibilità dove l’anima fuori del corpo non trasmette sofferenza. Insomma, la morte si annuncerebbe con una sensazione di piacere. A Leopardi interessava l’attimo esatto della morte, non il dopo e neppure il prima. Se i sentimenti vitali sono inerti, ecco che la morte potrebbe addirittura rivelarsi sotto forma di languore. Lo scrive Pietro Citati nel suo bellissimo saggio Leopardi (Mondadori 2010): “La parola manca, la mente non può badare a immaginazioni e pensieri; e questo letargo è forse più grato nelle malattie violente, perché la natura compatisce le sventure dei mortali e toglie loro la forza di sentire e di patire”. Leopardi indica il giovamento nella perdita di coscienza, in una vita che dimentica, che riposa. Citati ci fa capire mirabilmente, studiando e commentando il poeta, che la morte non è qualcosa che si oppone alla vita. Se una persona sviene, è noncurante di ciò che accade intorno a lui. Leopardi intende la morte come un abbandono imperturbabile ed estraneo alla vita. Una naturale condizione che non richiede nulla, come quando, appunto, ci si addormenta. Non c’è un perché della mente. Il grande recanatese non accenna quasi mai a questioni metafisiche: si frappone tra l’esistenza terrena e la morte. E’ un uomo terrestre, caduco e mai effimero. In un’intervista di Antonio Gnoli a Pietro Citati, apparsa su “Repubblica” il 21 settembre 2010, il critico afferma: “Da un lato si serve di occhi microscopici per creare un sistema di relazioni quanto più fitte e mobili possibili. Però il sistema può essere pericoloso, se diventa eccessivamente razionale può irrigidirsi. E allora la sola possibilità di fuga è affidarsi alla trasformazione. Ecco perché Leopardi diventa tutti i libri che legge. Ed è la ragione per cui pensa di essere solo uno scrittore di tentativi”. E nei tentativi è compresa una domanda assoluta, spiazzante: i vivi, potrebbero essere morti senza saperlo? Potrebbero essere in un limbo vitale, ma da morti, per un inganno del destino? Se paradossalmente la morte scomparisse nella morte? Se la verità non fosse mai rivelata del tutto, per un’appendice che ci nasconde che siamo venuti meno? Se fossimo passeggeri non solo nella vita, ma anche nella morte? Se non sapessimo del decesso e continuassimo a muoverci negli stessi luoghi, con le stesse persone? Se fosse tutto un eterno ritorno senza supplizio? Il “sistema di malattie” di Leopardi non consente al poeta una visione metafisica, ma l’elaborazione sistematica di pensieri e immagini sospese tra dolore, angoscia, desolazione, passione e solitudine: una condizione mortale, nonostante un’immensa vitalità, nonostante il mito della felicità infantile e adolescenziale. E’ un bisogno estremo che affiora al di sopra del contingente e fuori da una potenza fantastica, innaturale, come indica Citati. La struttura umana è altresì una realtà che si butta a capofitto sulle ragioni ultime. La morte, infine, annulla ogni male e ogni dolore, tanto da poter essere paragonata ad una bellissima fanciulla, ad un amore da conquistare. Nient’altro che ad una liberazione, quando la si immagina oltre ogni “arido vero”.

Alessandro Moscè

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