RAFFAELE MANICA E LA RIFLESSIONE AGGIUNTA

Raffaele Manica è un critico che invita a leggere un classico ogni due novità, o due classici per ogni novità. Come a dire che i valori acquisti, storicizzati, non vanno mai persi di vista di fronte ad un’ondata di libri letterari d’intrattenimento. Libri fatui, senza una testualità che ne avvalori l’utilità della pubblicazione. Ma ciò che Manica afferma apre un confronto impietoso tra quello che è stato in passato e quello che è la società letteraria del Duemila. Tra l’attenzione alla buona letteratura e il disinteresse generale di adesso, il quadro odierno è completamente cambiato, trasfigurato. Tra una società più attenta e un pubblico che dissipa e non conserva nulla della buona letteratura, la vicissitudine delle forme e delle tematiche è deprimente. Raffaele Manica sa bene che il mancato riconoscimento di una scuola, di una formazione e di un riferimento, proietta i giovani scrittori e la giovane critica a scandagliare un ossessivo presente senza un bagaglio di letture sufficienti e senza una preparazione adeguata per militare. La letteratura d’evasione, o paraletteratura, o letteratura di consumo, non permette più neppure un discernimento sufficiente ad aprire il dibattito. Exit Novecento (Gaffi 2007), che spesso rileggo, è un regesto tra i migliori di Raffaele Manica, una raccolta di brevi saggi sul secolo breve, una panoramica della letteratura italiana durante gli ultimi decenni del Novecento attraverso una serie di ritratti: i fondali, o gli scorci di qualcosa che è rimasto, nonostante tutto. Da Arbasino a Celati, da Ottieri a Siciliano, da Manganelli a La Capria passando per Bertolucci. Il meglio del meglio, verrebbe da dire, come in un’antologia, seguendo l’etimologia della parola. Una verticalità che indica e insegna, che distingue e colloca. La critica, in questo caso, è ragionamento, confronto, valore nel parallelo tra la tradizione e la geografia. La letteratura come modo di pensare, di capire un’epoca, un ambiente, un modo di essere (ad esempio la letteratura che crea immagini come nei film). Ha ragione Manica, che ci induce a non ritenere sprecata una riflessione aggiunta, un’appendice, un ulteriore approfondimento. Sensibilità e assolutezza sono le armi del critico, che selezionando scrittori su scrittori dà una riposta decisa sulle questioni dominanti del secolo scorso. A proposito di classici, annota su Mario Tobino: “I riferimenti classici non smettono di mostrarsi essenziali per sintonizzarsi su Tobino, così meno semplice di quanto non sia dato pensare in misura del suo successo e dell’impostazione della sua pagina. Una misura classica in cui Tobino si fa personaggio di Orazio, Ovidio e Tacito, ma anche alunno, innamorato e sognatore da loro ispirato”. I luoghi sono il fulcro della disamina romana. Su Emilio Gadda: “Roma, per Gadda, è una città che non esiste, nonostante la fisicità dei luoghi e dei personaggi. Il dialetto è poco più che una sottolineatura ironica o una coloritura delle cose, gli abitanti quasi non si vedono perché, come l’anagrafe vuole, sono lì catapultati dalla provincia o dal resto d’Italia”. Su Pier Paolo Pasolini si nota la disperazione dell’amore per la tradizione letteraria e al tempo stesso la mancanza di fiducia sul ruolo della letteratura. Raffaele Manica fa un’osservazione pertinente sugli Scritti corsari, che aiuta a rileggere l’intera opera di Pasolini: “Quale era dunque quello spirito? Era il completo disinteresse tattico e strategico delle tesi lì affermate. Non discorsi per posizionarsi da qualche parte, ma verità soggettive pronunciate come disperato desiderio di identità, senza calcolo”. Nel campo aperto di forze contrastanti, è stato detto, si cerca sempre di vedere “come va a finire”.

Alessandro Moscè

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