ANTONIO PORTA: TRA IL NON IO E l’IO

Antonio Porta è stato un attivista all’interno del Gruppo 63 e fu tra i sostenitori di maggior spicco della neoavanguardia e della sua proposta teorica. Ma rimane certamente la personalità più atipica in quel drappello, perché non si può intendere avanguardista in senso stretto, nella cesura del movimento tra lingua ed emergenza artistica e letteraria. Inoltre, in una seconda fase della sua produzione poetica, Antonio Porta registra un allontanamento deciso dalle posizioni che avevano contraddistinto i suoi esordi e gli anni immediatamente successivi. La poesia risente di molti altri influssi e si definisce in un’autonomia e in un’originalità particolari dell’intero secondo Novecento italiano. Tra coloro che hanno meglio contribuito ad inquadrare la personalità di Antonio Porta (oltre ad Alfredo Giuliani e a Renato Barilli), va annoverato Pier Vincenzo Mengaldo, che nella celebre antologia Poeti italiani del Novecento, pubblicata da Mondadori nel 1978, parla espressamente di un poeta più dotato rispetto alla pattuglia della neoavanguardia, cogliendo una prima divisione nella scelta di campo. La “necessità espressiva” (se non addirittura lirica in alcuni componimenti), porterà Antonio Porta a rivelare “una forte tensione espressionistica dello stile”, come Mengaldo sottolineò con convinzione: una ricerca vivace, propria, che non nasconde la sua origine lombarda e una ricca formazione che attiene, in particolar modo, alla “poetica degli oggetti” di derivazione anceschiana, ad una relazione con gli eventi e con le funzioni di questi eventi.
L’aspetto più delineato, sin dalla raccolta I rapporti (Feltrinelli 1966), è la necessità di raccontare quella “apertura a interessi di tipo realistico-narrativi” che lo stesso Sanguineti aveva rivelato nella proposta di Porta e nella soluzione linguistica e formale. Gli innesti narrativi sono veri e propri brandelli di scrittura, spezzoni nell’irregolarità sillabica (“Attento abitante del pianeta, / guardati! dalle parole dei Grandi / frana di menzogne, lassù / balbettano, insegnano il vuoto”).
Il dire si prolunga, sincopato e al tempo stesso ritmato in un corto circuito di frasi che restituisce l’implacabile incedere della parola che denuda uno sguardo scomposto, che offre una visionarietà e un emblema del vero, una corrente surrealista sulle cose, un’instabilità espressiva nella consistenza del discorso senza assunti ideologici. La testimonianza di Antonio Porta si staglia in un verbale che registra azioni, una progressione del movimento incastonato ma subito dopo dilaniato, un attrito che segna un’epoca, che vuole opporsi ad un metodo, ad un consolidamento. Ma la stessa lingua non è mai così sfibrata e incontenibile, non è mai destrutturata di un significativo orizzonte tematico e di un respiro proprio. Il poeta non si lascia catturare dalla convinzione di approdare al senso negato come obiettivo primo ed ultimo, piuttosto seleziona brani e li rende sensibili ad una comprensione, ad una disposizione semantica. Il cronotipo dell’incedere visivo assume la cadenza di un viaggio di stazioni, di un effetto di echi che si sente appena e si perde nel nulla, nel magma deformante. Il ritmo, in effetti, è dentro un luogo segreto che sembra raccogliere ogni spazio e ogni tempo nel rapido intercalare del discorso diretto. Il fare di Porta è frenetico, compulsivo. Il verso mantiene una sua cadenza e una sua drammaticità paradossale. La lingua individua uno schema immaginativo e la sua negazione, la sua alienazione, una meraviglia e una disperazione incidentati, una specie di verità degradata fatta di travalicamenti.
Lo scompaginare le immagini non viene meno in Cara (Feltrinelli 1969) e in Week-end (Cooperativa Scrittori Editrice 1974), dove il movimento e l’intercalare di sprazzi d’azione e di convulsione si impadroniscono di una scena rivisitata in continuazione. Le escrescenze dell’immagine, questi monconi e queste rapide dissoluzioni creano una contaminazione interminabile tra visività e sogno, tra fenomenologia e maschera, pur in una dotazione di ritmo lungo e in una propensione al contrasto tra fatto e non fatto, tra oggetto e metastasi della lingua. La conoscenza delle cose e l’intuizione del poeta sul piano strettamente personale, pur nel dire -no- alla poesia dell’io, ingabbiano un sentire ripetitivo, invasivo e al tempo stesso volutamente sbavato nella gestualità e nella radicalità delle percezioni limite. Cara è probabilmente la raccolta poetica più sperimentale di Porta, dove si rincorrono frasi intense e disintegrate, parole troncate nel loro significato, cucite e scucite per rispondere alla sospensione di una presa generale sull’azione stessa. Una stella polare con una decostruzione contagia anche gli animali e i vegetali in un universo che sembrerebbe infetto, in una lingua che ingloba un virus, un orrore: “Cola un filo di bava / salgono le pareti / con le zampe ventose / ingialliscono in poche ore / hanno bisogno di luce / percorrono le cupole / l’aria si fa più fredda / sigillano le fessure”.
Antonio Porta si sposta verso una virtualità nel reale, aspetto che si avverte in modo prepotente nella raccolta Week-end, dove però la lingua è più pianificata e le immagini risultano più codificabili (“si muove nella stagione lo consente / ogni luogo ha regole dettate dal clima / nella stagione inclemente dispone le sue difese / si sposta per sopravvivere o vivere…”).
Gli ossimori acquistano una valenza nella forza rivelatrice, nelle locuzioni che guizzano in superficie dotate di un senso rivelatore e di una giustapposizione di combinazioni. Anche il rapporto vittima-carnefice si attenua. E’ in questa opera che Porta si distacca di più dal Gruppo 63, dai Novissimi come da quel risultato di complessità linguistica e di coordinate fatte di stimoli e frizioni. La sollecitazione del linguaggio è sempre imponente, ma molto meno inghiottita dalla sperimentazione. Resiste uno sguardo retrospettivo a decidere il verso, a rappresentare una verifica, un’energia più vitale. Quel “ecco quanto ho da dirvi, carissimi”, indica un orizzonte finalmente personale, un senso di percezione fisico oltre che una convergenza tra fatto e uomo. La risposta di Porta rimane ancora quella di chi si pone contro ogni tipo di mercificazione della società e quindi è quella di chi tenta di provocare uno sgomento con la poesia ad ogni forma di conservazione e di conformismo.
Passi passaggi (Mondadori 1980) è un’ulteriore dimostrazione di come la versione narrativa si sganci da una forma astrusa e viri verso una dimensione delineata nelle figure e nelle ragioni intime di una poetica più ampia, con una trazione diversa rispetto alle precedenti opere. Poetica che apre un varco nella condizione naturale dell’uomo. La lacerazione della realtà è infatti maturata in una presa meno aggressiva, anche se pregna di simultaneità espressive, specie tra le atmosfere naturali e le azioni individuali che risultano incongrue tra loro (“La città è solo sfiorata dai gabbiani / virano a distanza e si tuffano all’indietro / ma è la sua luce interna e esterna a sorreggerla / insieme alle acque che la cinturano e la penetrano / mai utero fu così intestinale e intestino…”).
Antonio Porta parla chiaramente di nudità e gli avvenimenti escono da quella vastità linguistica e metaforica delle prime pubblicazioni. I protagonisti sono pensati e ripensati e affermano la loro presenza come la loro indiscutibile soggettività funzionale.
Invasioni (Mondadori 1984) è uno dei migliori libri di Porta. La svolta, qui, è notevole. Il linguaggio non più spezzato, penetra incessantemente le cose orientandole. La costruzione sintattica del verso risponde ad un’esigenza di apertura, di corporeità. Le frasi sono tanto nette quanto cristalline. Il dire si lega ancora all’evento, ma il combinarsi delle parole scardina le situazioni. Il fatto è enunciato per quello che è, come il male, come ogni manifestarsi inedito che rende l’aria rarefatta, tremante (“Stamattina la radio: sono già pronte / bombe per 250.000 Hiroshima / ma il pericolo non è imminente. / Rispondetemi, come può un poeta essere amato?”).
La domanda di Porta è un avvertimento secco e dà l’idea di una desolazione imperante, di una sconfitta annunciata dalla volontà di chi ordina. Il soggetto, ora, è nel nucleo di ogni agire, ma l’uomo è anche il responsabile di un’agonia generale. La rappresaglia umana fa intendere come i valori siano capovolti, come la materia superi lo spirito, come un senso di disgregazione possa annullare ogni intenzione pacifica. La poesia è l’esempio di un bene antagonista alle azioni disgregative. Le negazioni di fronte ai gesti dell’uomo, il non compreso e il non condivisibile sono principi demandati a riscontri continui, ad un fiorire di interrogativi (“Ha un senso occuparsi di stagioni? / La risposta sta qui, sulla carta, / finché resisto al loro ciclo / io scrivo”).
La discontinuità con le precedenti pubblicazioni è nel recupero di un grado apicale rispetto a quello zero che aveva contraddistinto la fase sperimentale. E la conferma arriva da tutta quella continuità di azioni quotidiane priva della disarmante letterarietà e dell’influsso gergale che nella prima fase erano stati costanti che debordavano. Il fiato lungo del poeta è inconfondibile nella concentrazione della lingua disossata. Il disagio e il turbamento sono allentati fino a sparire: il poeta affida alla scrittura una fiducia incondizionata. Il segno positivo è per quella rappresentazione della realtà che non indica scontri, deviazioni, ma che fa rimbalzare apparizioni e pacificazioni, un’interpretazione, se vogliamo, del postmoderno.
Niente di preformato fa parte della raccolta Il giardiniere contro il becchino (Mondadori 1988), nella quale il verso è incisivo, fissato ancora nel carico delle azioni. La propria esperienza è attraversata da associazioni di idee, da un passato che si rifà avanti, oltre certamente quella morte del senso che l’avanguardia aveva decretato e che in parte rimane, ma solo come pretesto. Le immagini appaiono nitide, fotografiche, comunicano l’essenzialità, la discorsività. Azioni e movimenti sono fedeli a quel proposito, a quel progetto di recupero di una prospettiva che non annulli, che non azzeri la storia, ma la sancisca nella presenza incarnata, biologica. La sezione Airone lo conferma in pieno. Lo stesso Antonio Porta ha affermato di aver scritto queste poesie in aereo, prendendo degli appunti, cercando di capire, di descrivere il territorio così come lo vedeva in quel momento, così come lo sentiva. Un’idea che certamente non sembra essere nemmeno pensabile se rapportata al Porta degli anni esordiali. Qui la vita è un concetto arioso, che si tocca con mano, che si lancia sulle cose: “come la cagna / lupa affamata insegue disperata / la lepre elegante troppo veloce / quasi non si fa distanziare nel breve piano / ma alla soglia di un boschetto / tra i primi cespugli quella sparisce…”.
L’inseguimento è nella “vita che mostra di bastare a sé stessa”, che non chiede di più. E affiora il raffronto vita-morte che si riflette nel positivo e nel negativo, nell’allegoria di Airone, come nell’elaborazione lirica. L’attesa di questo contrappasso rappresenta il senso più compiuto della sezione del libro. Porta si lascia andare ad una visione perfino favolata (“i tuoi disegni sono tutti terrestri / non esiste, non desidero che esista / un altro corpo, / così stringendoti al petto mi nutrono / le tue piume reali e immaginarie, / quando non ci sarai più né io / sarò più con te / insieme sciolti nelle acque…”).
Yellow (Mondadori, 2002) il verso è limpido, veloce e discorsivo (“Telefoni dall’autostrada domenica mattina / per dirmi degli sprazzi di luce / la pioggia battente e passaggi rapidi…).
L’io si affaccia sul giudizio, sull’esperienza consapevole e spontanea, sul dialogo a due (“ma tu passi tra i bagliori dei temporali / e mi telefoni per dirlo: «non c’è / traffico, l’autostrada è quasi deserta, / sto arrivando non ci sono più ostacoli»”).
Emerge una “ricreazione” dell’io, un’immediatezza che brucia l’attimo, che ritaglia uno spazio ristretto, appartato. La poesia di Antonio Porta fonde un soggetto parlante con un linguaggio venato di considerazioni, di solitudini e attesa, di circospezione e libertà (“Io sto muto sul letto davanti a quell’armadio / e la sfido, quell’ombra, / che venga, che mi salga sopra / la mia vita è stata felice / la mia infelicità totale, / venga, se ha coraggio”).
La mano di Porta è schiusa verso tutto ciò che è cancellato dalla finitudine, dal tempo e dalle scomparse, specie quelle imminenti, presagite. Il sogno d’iniziazione recupera, però, persone e luoghi. Non odio, non amore, ma il tempo che indugia sulle sue sottrazioni: “In quest’ultimo istante che ti guardo in faccia / da foglia calpestata risorgi giovane intatta / solo perché io ti guardo e tu attraversi / bagnata lucida lama la mia vita…”.
Non c’è altro poeta, nella seconda metà del Novecento, che abbia attraversato più linguaggi e più approfondimenti teorici. Negli anni Ottanta l’esperienza di Antonio Porta aggiunge una rinascita. Scrive Enrico Testa: “Ai temi di sempre (l’ossessione erotica, la denuncia, di marca brechtiana, delle violenze storiche, la metamorfosi della materia e dell’io) si aggiunge un parlare senza remissione”.
Il valore assoluto dell’esistenza denuncia come ogni doppia significazione morale costituisca l’enigma assoluto. La sicurezza di un poeta come Porta è nello sfuggire ad una compiutezza sia formale che sostanziale. Il verso che lede, che sconcerta, che sembra sempre in preda a raptus, rappresenta la scommessa vinta nei barlumi della mediazione linguistica e mai nello stile.

Alessandro Moscè

 

 

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