ROBERTO MANCINI: COSI’ DOCILMENTE IRRIVERENTE

Roberto Mancini, nato nel 1964, è un uomo all’apparenza placido, che non perde mai la testa. Tanto consapevole del suo fiuto di intenditore di calcio, quanto mai del tutto decifrabile come persona. Non amato dalle grandi squadre, a volte indocile ma umile, smanioso di riuscire al meglio, lavoratore instancabile sul campo da gioco, ha eluso anche gli eccessi oltre che gli avversari, quando era un campione del Bologna, della Sampdoria e della Lazio che dribblava gli avversari e lanciava in rete, con assist da talento impressionista, il centravanti della squadra, chiunque fosse. Lo si vede raramente sui rotocalchi e mai protagonista della movida estiva, semmai con gli amici di sempre a Jesi, la località natale, un posto in mezzo ad una valle anonima tra il mare e la collina, mentre beve un aperitivo e si prepara per una partita a tennis al circolo cittadino. Tutt’altro che bohèmien, è il protagonista parco davanti alle telecamere: riservato, sbrigativo, perfino un po’ scontroso. Figlio di un falegname e di un’infermiera, ha vinto in Europa come una sola volta era riuscito alla nazionale italiana nel lontano 1968. Prima e dopo le partite della competizione di luglio, Roberto Mancini lo vedevamo negli spot della Rai promuovere la sua regione. Numeri da capogiro quelli che la Confcommercio Marche ha rivelato qualche giorno fa: 10.000 richieste di informazioni in più rispetto alla media del periodo. Ma il dato che fa sobbalzare è relativo all’aumento del Pil tendenziale: tra quest’anno e la fine del 2022 un miliardo e 100 milioni di euro in più per il turismo. Mancini, oggi, è un brand come nessun altro da Torino a Palermo.
Plastico e armonico, irretì gli avversari (senza volerlo, dote rarissima), quando vestiva la maglia della Lazio, con un colpo di tacco beffardo che lasciò di stucco il più grande portiere di sempre, Gianluigi Buffon. Dal calcio d’angolo del rude serbo Siniša Mihajlović alla rete di Roberto Mancini attraverso un groviglio di gambe, il passo è breve. Anzi, fu breve l’allungo del piede che chiuse un angolo retto. Un gesto tecnico memorabile datato 17 gennaio 1999, che sbalordì chi il calcio lo considera soprattutto secondo una visione geometrica e tattica, da metronomo che applica rigidamente gli schemi. Roberto Mancini gli schemi li ha sempre rotti come un bicchiere di cristallo lasciato cadere a terra. Era già allenatore quando vestiva la classica maglia numero 10 e non è mai stato un calciatore al capolinea, ma capace di redimersi, di risvegliarsi, di stupire all’improvviso. La Lazio, con lui, valeva il doppio e sembrava annullare i difetti di prevedibilità, di mentalità. Mancini ha vinto dovunque è andato, da calciatore prima e da allenatore poi, anche nella fatidica Inghilterra (la ricca Manchester) dove agli Europei del 2021 è stato il dio sardonico di fronte al costernato Principe William e ad un paese stizzito, frustrato. I rigori, le parate, gli errori, le prodezze di Donnarumma, Chiesa, Pessina, Insigne ecc. lo hanno consacrato nell’eleganza composta in panchina e nel pianto liberatorio, come fosse ancora un ragazzo, abbracciando il gemello del goal Gianluca Vialli, che sta combattendo con tenacia una sfida più grande e invisibile. Ma in fondo, chi è Roberto Mancini? E’ un poeta e non un prosatore, avrebbe detto Pier Paolo Pasolini, dotato di un disincanto che alleggerisce ogni tensione. Ad Ancona, una volta, segnò da terra. Ero in curva e lo vidi galleggiare con una gamba alzata. L’arbitro non aveva fischiato alcun fallo e anche in quell’occasione, incurante, non seppe rinunciare al peccato originale: il colpo ad effetto che mortifica il difensore. Per tutta la partita si sbracciava e dava consigli. Lo ascoltavano e la Sampdoria di allora pendeva dalle sue labbra, più che da quelle del suo allenatore prediletto: il monarca Sven Göran Eriksson, che un giorno gli disse: “Vado alla Lazio solo se vieni tu”. Lo jesino rispose: “Vengo solo se prendono anche Mihajlović, Veron e Lombardo”. Affare fatto. E vinsero lo scudetto. Roberto Mancini è un predestinato, quell’ardesia propagata nell’ardore dello stadio, parafrasando una poesia tra le più belle di Vittorio Sereni. Era naturale che facesse l’allenatore, perché di calcio capisce come pochi. Non è mai stato e non sarà mai un profeta perché non è mai stato juventino, milanista o interista. E’ un non appartenente, una non bandiera, come solo l’altra faccia del conformista sa essere. Così normale e così irripetibile. In fondo così docilmente irriverente senza che ce ne accorgiamo.

Alessandro Moscè

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