Ci sono narratori che si affidano alle saghe familiari per attraversare la storia e per non dimenticare ciò che è stata l’Italia nel secolo scorso, conciliando così la vita privata a quella pubblica, le pieghe sorprendenti e terribili di un vissuto e i contraccolpi protrattesi per decenni tra le generazioni di una stessa dinastia. Dagli anni che precedono il secondo conflitto mondiale ad oggi, L’immensa distrazione di Marcello Fois (scrittore, sceneggiatore e commediografo nato a Nuoro e che risiede a Bologna), romanzo appena pubblicato da Einaudi, è la rappresentazione del ricordo di un padre diventato nonno, della moglie, dei figli e dei nipoti. Ettore Manfredini, il protagonista, appena morto, ha la netta sensazione di svegliarsi come tutte le mattine nella sua Emilia costellata di campi, allevamenti e pianure. “Nella sua stanza rintoccavano lingue d’ombra che non erano notte piena, ma non ancora giorno fatto. Conosceva quel paesaggio, quello stadio intermedio, quella terra di nessuno in cui la luce si fa sciropposa”. Siamo negli anni Trenta. La famiglia Manfredini gestisce un mattatoio trasformato in un’industria di lavorazione delle carni allevate. Ettore, con l’uscita delle leggi razziali del 1938 che hanno sottratto il macello ai legittimi proprietari, i Teglio (dei quali non si seppe più nulla dopo la caduta del fascismo), prende in mano l’attività diventando in breve un grande imprenditore. Sposa Marida, salvata dalla deportazione, e nasce Carlo, il primogenito. “Carlo non gli era mai stato simpatico, fin dal primo giorno, quando appena lavato dall’ostetrica, ripulito dal muco amniotico, era stato in grado di spalancare le palpebre”. La dinastia prosegue con Enrica, la più adatta a sostituire il padre nel lavoro, con Edvige ed Ester, che studieranno conseguendo una laurea come lo stesso Carlo. Fois costruisce una lunga storia diacronica, tra un matrimonio d’interesse, il senso degli affari, l’Olocausto e la consapevolezza che solo in uno stato di trapasso è possibile fare i conti con le persone più vicine e con gli avvenimenti del Paese. “Vivere è un’immensa distrazione dal morire”, scrive Fois. Elio, il figlio di Carlo, rivelerà un nonno finalmente affettuoso e consacrerà il salto di qualità dei Manfredini, costituendo la forza motrice del futuro. Ester, improvvisamente, scoprirà che i Teglio, esclusa la nonna, furono deportati e morirono nei campi di concentramento. Come quantificare il peso delle proprie azioni, si chiede il Fois? Ester si ribella e viene coinvolta nella contestazione, negli anni di piombo. Odia gli americani, i mediatori, veste con i maglioni lunghi, fuma e porta in casa i “compagni proletari”. Identità e destino sono le coordinate del romanzo, che ovviamente non sancisce una conclusione. Vicissitudini e riappacificazioni si diramano in una narrazione limpida che sussulta di regesti e di resoconti, di un pensiero appassionato e rarefatto: “Poco prima di mettersi a letto, forse, avrebbe dovuto intuire di che pasta era fatta quella specie di chiarezza che l’aveva investito e che gli permetteva di trovare un posto a tutto ciò che gli era sempre sembrato totalmente scombinato”. Una memoria onnisciente accompagna L’immensa distrazione nel silenzio e nella resistenza umana, nel ragionamento e nelle contraddizioni di tutti, in un groviglio di episodi che si risolvono da sé, quasi che una lacerazione interiore si rimargini senza un intervento diretto e risolutivo, in un’immensità di energie fisiche e spirituali.
Alessandro Moscè
