IL PORTATO PRIVATO E IL SENSO DI FINITUDINE UMANA

Su “Atelier”, numero 116, dicembre 2024

Ci si chiede spesso se esista ancora una connessione tra la tradizione e il presente poetico, in un’epoca convulsa in cui prevale una crisi culturale determinata in gran parte dalla società della comunicazione che transita attraverso la rete e che delegittima il critico engagement, nonché lo stesso rapporto di relazione tra i letterati. Per tradizione poetica intendiamo il Novecento che inizia con le figure apicali che fanno parte del canone storicizzato, tra cui Saba e Montale, e prosegue con la terza generazione, con i poeti della semplicità stilistica (Bertolucci, Caproni, Luzi, Sereni, Gatto, Penna), fino agli interpreti di fine secolo scorso che hanno intramato il sublime domestico specie a partire dall’Italia centrale, tra l’Emilia, la Romagna e le Marche (Scataglini, Benzoni, Bevilacqua, Piersanti, Scarabicchi, i poeti santarcangiolesi ecc.).
Alessandro Moscè, marchigiano nato nel 1969, che vive a Fabriano, nell’entroterra anconetano, ha rinnovato questa connessione in un frame che scorre lungo l’asse mai consumato della poesia neo-lirica. Poesia imperniata sul nutrimento indispensabile della memoria, che trova una cerniera nel tempo integrato di humanitas, di età e ricordi, di affetti e sogni ai margini dell’esistenza geografica (la provincia italiana), nella forza del passato convergente in momenti irripetibili di pienezza e silenzio, di malinconica premonizione che controbatte il fluire del quotidiano con l’esercizio poetico. Una tendenza sviluppatasi a partire dalla fine del Novecento e che si insedia fuori da un sistema storico di collocazione. Del resto la Generazione Sessanta che non hai mai riconosciuto una formazione e un’identità collettive (tanto che si parla di generazione che non c’è).
Moscè, con Per sempre vivi, la sua quinta  raccolta, condensa la misura esistenziale del soggetto/persona in una dichiarazione di poetica sintetizzata da Tiziano Broggiato nella nota di lettura che costituisce il portato biografico in corpore vili: la comunicazione tra i vivi e i morti; l’eros; il locus amoenus dei giardini pubblici di Fabriano, luogo esistenziale piuttosto che naturalistico e contemplativo; la malattia infantile con il sibilo misterioso, radente della morte; il riscatto, con un simbolo di forza identificato nel mito dell’infanzia: il calciatore della Lazio Giorgio Chinaglia. Temi personali e nuclei percettivi di un umanesimo espresso nel senso più alto della finitudine comunicativa, parallela alla terza generazione dei maestri letti con fervore, di un sentire appartato ma non autoreferenziale o schiacciato nell’io, senz’altro lacerato da drammi e costrizioni, liberato da intenzioni che vanno in controtendenza con la società attuale: mercificata, asettica, soffocante. Società che ha constatato il fallimento delle ideologie che peraltro Moscè ha sempre rifiutato. Dal punto di vista strutturale e linguistico il poeta segue una tendenza lirico-narrativa, una versione da raccontatore che ripudia il collage verbale, sperimentale. Tende verso l’alto comprendendo una dimensione metafisica certamente figlia della formazione cattolica (Moscè ha dato alla luce anche bei romanzi nati dalla stessa tensione esistenziale). La contiguità tra parola e cosa risalta sin dai primi componimenti di Per sempre vivi: “Il filobus è passato due volte nel vortice dell’aria / partito dalla stazione di Ancona / con i cavi di sostegno elettrico in aria. / Nonno Ernesto era seduto in ultima fila / leggeva il giornale senza occhiali / i capelli tirati indietro dalla brillantina Linetti”.
Il catalizzatore della prima e della seconda sezione (Apparizioni e Sogni) è un classicismo poetico che nel limen tra la vita e la morte muove l’andatura veloce dei versi, il rendiconto di una verità effettuale e un’immaginazione arroccata nello spazio principalmente urbano di due città correlate (Fabriano e Ancona) dove sono ambientati testi raramente di stampo fotografico, soprattutto catarifrangenti di un vivere nel raggio interiore, condensato di pensieri improvvisi, motivanti, di amorevoli figure emerse nel groviglio di anni lontani e nel parlato di nonni, zie, vicini di casa, ragazze, donne incontrate per caso, amici mai più rivisti. La notte rappresenta la centrifuga della coscienza del dolore, come scrive Mario Famularo nella prefazione a Per sempre vivi, così come della malattia, della precarietà e della perdita dei propri cari. L’ingombro della lunga ospedalizzazione avvenuta a tredici anni proietta nella scrittura il superamento di una grave malattia contratta in età puberale per correre felicemente verso la giovinezza, “abbracciando appieno il vivere nel mondo e in relazione”, come se il trauma fosse replicabile e sconfitto infinite volte (“Qui c’è aria di aldilà / di più non so dire. / Qui sembra tutto finito / e se mi dicessero / che il vento è il mio fiato / ci crederei stringendomi a me / per l’ultima volta”). La morte sventata indica un tempo illimitato nella sua costruzione a ritroso, confermata dall’accezione esortativa del titolo stesso della raccolta (Famularo).
Moscè parte da remote percezioni nei luoghi più amati: i borghi e le frazioni del fabrianese esclusi dalla vampa dell’attualità, imprigionati nelle campane delle chiese deserte e nei lumini dei camposanti, in una compresenza di vite spente e di inquietudini che non scendono mai nella compiacenza scenografica. Nella rêverie i morti viaggiano in un percorso fulgido, in un’incarnazione che li riporta miracolosamente in vita, in un’umiltà consolatoria che emerge dal buio, quasi a creare un’antropologica terra di tutti e di nessuno, una bolla creativa esente da archetipi storici e che si riversa nel mito privato (“Dal mare calmo / si avvicina la fine che sosta / sulla nascita del fiato. / Anche nonno Alvaro / soggiorna da quelle parti / tra le vastità dell’Adriatico / lo sento sussurrare / nel meriggio tremante”).
Nella terza sezione, Silenzi, Moscè utilizza la forma epigrammatica nella germinatio di una consapevolezza assoluta e all’incrocio di illuminanti istanze: il tempo che scorre inesorabile; l’ossessione della morte; una ricreazione anche espressionistica dei defunti; l’epica intimista che nelle ritornanti presenze determina un ciclo epifanico (in interiore homine habitat veritas). I trapassati sono più visibili e interattivi dei vivi: in tale contesto la tensione metafisica si accentua e diventa una componente essenziale restituendo l’originale catalogo dei morti e della morte, “veliero dell’inesprimibile” (“Bianca età e assetata memoria / per le pupille allarmate / nella fotografia di mio padre / di mia madre negli scogli erosi di Porto Recanati. / La sorpresa si nasconde spesso / dentro vecchi libri”). Gli oggetti risultano talismani dalle proprietà propiziatorie: lo scialle della bisnonna, i calendari, le torce, le ciabatte di sughero, il vecchio faro, i romanzi, i cancelli, il lampione, le capanne, gli orti, i tarocchi, i motorini. Il reale non è mai indistinto e il discorso avviato prosegue senza corruzione, senza retorica, in un diario che riempie la coscienza del vuoto nella lingua uniforme, severa, che scioglie i grovigli pur riconoscendo i limiti umani oltre l’orbis terrarum. La sovraimpressione di piani temporali origina il sincretismo tra immagini visive e immagini spirituali, nel giro di parole cariche di un’immanenza fluente (“Una carezza sul mio volto appena rasato. / Chi me la darà tra i tanti / per farmi tornare il tremore / nell’ansa dove corrono i soprapensieri?”).
La quarta sezione, Dialoghi con mio padre, è una prosa poetica nel controcanto onirico rafforzato dalla pietas e dell’amore filiale. Moscè si rivolge al padre in un confronto concitato, tachicardico, perché gli riveli da dove veniamo e dove andremo. La morte del genitore apre uno spiraglio per accedere oltre il possibile, in un territorio estraneo. L’ansia di conoscenza, però, non sarà appagata. “Aprire le porte del cuore, un frammento dell’anima”, per dirla con Kahlil Gibran, non è sufficiente a raggiungere uno scopo ben superiore all’impegno civile, all’antagonismo politico, ai conflitti sociali. Il padre cammina lungo un viottolo di campagna e sotto una luce raggiante. Non ha risorse illimitate e sa che deve raggiungere la cima della montagna, l’olimpo coperto da una corona bianca. Le gambe sono guidate e gli altri defunti procedono rigorosamente distanziati. Moscè fa dire al suo interlocutore: “Il riflesso del mondo non si esprime solo con la parola. A volte basta il silenzio. Gli occhi della ragione non sono sufficienti”. Insomma, la bellezza dell’assoluto è una conquista che annienta la materia, come la beatitudine e lo spazio incalcolabile della libertà che rimangono un mistero sensoriale. Il ritmo incantatorio del poeta, in questa fase, incede con una scrittura densa, non rarefatta o vaga. La presa immediata del testo sfida nuovamente la morte e il tempo con un tono sapienziale: la purificazione avverrà per gradi, dice il padre. L’immutabile anelito metafisico rappresenta una fede testimoniata dalla saggezza di un vecchio vaticinatore nel vortice del dopo vita, nel sentiero verso la mèta. Il padre non tenta di spiegare alcunché e non trasmette presunzioni di verità, ma riferisce ciò che vede con gli occhi del viandante nella luce tersa che proviene dall’altra riva, tra i fiori (ortensie, gerbere, rose) e i canarini (verdoni, fringuelli, cardellini), nella perfezione della natura straordinariamente incontaminata. Il continuo venir meno dei confini tra l’aldiquà e l’aldilà alimenta questo dialogo a distanza, ed è il poeta ad assumere le vesti dell’eretico, del dissenziente che chiede troppo, privo di pudore e desideroso solo di apprendere un credere tangibile, non un referto parziale nelle voci fuoricampo tanto occasionali quanto inconsuete. Moscè cita San Francesco e il Cantico delle Creature, Dante e l’Antico Testamento, Blake (“poeta controverso, dannato, in combutta con i demoni”) come fosse un evangelista del Duemila che tenta di ricevere in dono la salvezza, la risposta risolutiva, quella che né gli scienziati, né i teologici, hanno mai recapitato. Infine Moscè si augura che il padre torni a trovarlo nel suo “spirito in atto” dal suo limbus impenetrabile, acquisendo un’unità compiuta nel colloquio ordinario, nell’empito sentimentale che li accomuna: “Papà, come sei vestito? Hai la stessa camicia celeste e gli stessi jeans scuri di quando ti hanno ricoverato in ospedale?”. Oppure, ricevendo una battuta fulminea: “Ho visto sul tavolo della sala la pizza di formaggio, le tagliatelle con il sugo di papera, la faraona arrosto”.
L’ultima sezione, La guarigione, ha una funzione catartica nello stato d’animo che passa dalla sofferenza alla gioia nella condizione complessa dell’ex malato. Ma occorre una premessa, che lo stesso Moscè attesta nella postfazione. A tredici anni, nel 1983, fu colpito da rarissimo un sarcoma di Ewing al bacino. All’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove lo hanno curato per due anni, sono morti tutti i bambini che soffrivano del suo stesso male. Il ragazzino, inaspettatamente, ce l’ha fatta e certifica, da par suo, che nella casistica ospedaliera, fino agli anni Novanta, si sono registrati due soli casi di guarigione clinica. “Mi sono posto molte domande da quarant’anni a questa parte. Posso dire che nella vita di cinquantenne non è rimasto un buco nero, ma una sola certezza: la malattia non si fronteggia con la sola speranza di guarire. Né con la commozione, che è un sentimento di tenerezza per sé stessi. Meno che mai con la disperazione o la rabbia. La malattia va semplicemente ignorata. Lo so, è un compito improbo, tanto è vero che può riuscirci solo un bambino, un adolescente, nella sua spavalderia”. Quando la consapevolezza di poter morire prendeva il sopravvento, la reazione salvifica del giovanissimo Alessandro Moscè consisteva nel pensiero “felicemente ossessivo” del suo idolo di allora, lo stravagante centravanti della squadra del cuore, Chinaglia. “Un famoso giocatore che ho conosciuto di persona diventò il viatico per far fronte ai luoghi di reclusione e di separatezza, gli ospedali”. Anche nel romanzo Il talento della malattia Moscè aveva affrontato la disavventura della malattia scendendo dentro il patimento con una prosa piana, diretta. Stavolta rievoca alcuni episodi cruciali, perfino tragici, ma non esorbitando nella riflessione concettuale. La pacatezza del testo poetico tout court si allinea ad un trascorso trepidante. L’anamnesi del paziente si nutre dell’esperienza psicofisica delle cure, dell’intervento chirurgico e della guarigione. Il regesto poetico è il sunto vitale contrassegnato da una lirica delicata, da un pathos solenne e dalla profondità del respiro confessionale (“Il male bruciava nelle vene, di soprassalto / la siringa spingeva un liquido rosso campari / minando le cellule al microscopio”). La poetica del ritorno si inoltra in un meandro di ombre, in un’epica del dolore e della redenzione. La partecipazione rifluita nel cortocircuito in versi svela il passato stretto in una presa d’atto disarmante, compromesso in partenza con il male della vita in un’ammissione di resistenza, nella catarsi segnata dalla guarigione e dal ritorno definitivo a casa (“Non ho più rivisto il continente degli amputati / l’ombra del campanile sulla fronte / la farfalla che sfiorava / l’euforia delle mosche in circolo / nell’orto per i bambini / nel rettangolo delle mura ottagonali / dirimpetto al dipartimento degli ambulatori”). Moscè, con questa sezione, è il delegato in pectore della guarigione, il portavoce delle guarigioni inaspettate, dei casi clinici che deviano il corso rispetto alla prassi medica, di una reazione che disconosce la rassegnazione guidata dall’istinto di sopravvivenza, infine corroborata dall’incantamento nell’assistere alle gesta del campione sportivo che incoraggia il piccolo malato. Arriva al punto di definire il bizzarro Chinaglia un cristo laico nell’elastico emotivo allora-ora, nell’immedesimazione perdurante dell’adulto di oggi con il bambino di ieri. Nella trasfigurazione temporale Moscè alimenta ancor di più la dualità vita/morte, il dare corpo all’affezione, al riconoscimento e alla sconfitta della patologia contratta decenni fa. Ravvia l’equilibrio tra l’incombente pesantezza di ciò che è stato e la grazia lievitante di ciò che resterà per sempre nella retrospettiva dei mesi trascorsi in ospedale, postazione citata cronologicamente, mese dopo mese, in esergo alle ultime poesie (“Adesso il sogno separa la coscienza dagli scomparsi / la memoria schiacciata di chi si addormentava / tra chi moriva”). Se a tredici anni la malattia poteva essere ignorata grazie anche al condottiero Chinaglia con un fisico da corazziere, Per sempre vivi è la dimostrazione che, come sottolinea Famularo, “l’esperienza della morte diventa accoglienza pura dell’esperienza dell’esserci”.
Alessandro Moscè è stato inserito nell’antologia contenente un ricco apparato critico: Poeti italiani nati negli anni ’60 a cura di Francesco Napoli. Se le generazioni precedenti, che annoverano autori come De Angelis, Conte e Cucchi è estremamente eterogenea, quella degli anni Sessanta può essere presa in esame come un corpo con varie sfaccettature. A distanza di molti anni dalla pronuncia del suo famoso Letteratura come vita (1938, saggio pubblicato sulla rivista “Il Frontespizio”), vale ancora ciò Carlo Bo precisò: cioè la protesta determinata da una profonda fede nella letteratura. Quindi letteratura come condizione e non come professione. Certamente Alessandro Moscè vive questa saldezza tra poesia ed essere entrando in risonanza con la lingua, nelle radici di una residenzialità che lo ha forgiato come humus nel quale crescere. E’ nei primi anni Ottanta, con il magistero dell’anconetano Franco Scataglini (uno dei maggiori dialettali del secondo Novecento) che venne coniato il concetto di “residenza”, divulgato insieme ai sodali, i poeti Francesco Scarabicchi e Gianni D’Elia, con il supporto critico di Massimo Raffaeli. Scrivere come gesto di conoscenza e ricerca: che senso ha vivere qui e non altrove, in un luogo alienato come qualsiasi altro? In questa conservazione attiva Moscè fa parte, a pieno diritto, della grande tradizione marchigiana, ma non solo. Napoli scrive: “La dizione chiara e lineare richiama, a tratti, la lezione sabiana. Ci sono sempre le Marche per Moscè, che sono e restano di fatto il centro geografico. Il padre è ritratto quasi alla maniera di Anna Picchi, la madre di Caproni, ritrovato in quadri caratterizzati da una potente musicalità e dall’identità tra poesia e vita, in cui risaltano le forme dell’esistenza più innocenti”. E c’è il rito sacro del calcio, metafora della lotta per la sopravvivenza. Il goal, utilizzando una nota affermazione di Pier Paolo Pasolini, è ineluttabilità, folgorazione, irreversibilità.

Ah, quante domeniche pomeriggio sul divano
un cuscino dietro la schiena, papà
il volume basso del televisore, ti raccomandavi
in diretta dall’impero dell’Olimpico.
Fuori la foschia invernale, un cielo illune
e la taccola sul davanzale.
Noi nella sala addolcita dall’odore di vaniglia
da parole frante alla fine del primo tempo
il risultato in bilico e un commento poco ottimista.
Il verde del campo illividito
dallo zoom sulle maglie, da un colpo di testa
nella mischia sotto la porta della Lazio.
Un via vai di calci d’angolo
torna ogni sera deportato
dal ricordo trepido fino al novantesimo
da un vuoto di assist, di sospiri in area di rigore
sotto le lenzuola con i tuoi occhi sui miei
tu che mi spii in terrazzo mangiando una mela

Antonella Caggiano

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