L’ultima raccolta poetica di Lucianna Argentino (nata a Roma), dal titolo Corpo di fondo (peQuod, 2024), fa pensare ad un’affermazione dello scrittore canadese Saul Bellow: “Tutti hanno bisogno dei ricordi. Tengono il lupo dell’insignificanza fuori dalla porta”. Queste poesie sono il centro polare di un classico romanzo di formazione in versi per la loro unità e compattezza. Weltanschauung come concezione di vita plasmata in relazione all’individuo nel mondo, alle “coordinate geografiche dei ritorni”, per dirla con l’autrice, che fa della memoria il motore immobile della creatività sotto forma di prosa poetica spinta in più dimensioni riflessive. Da soggetto ad oggetto, lo scorrere spedito passa attraverso la funzione delle cose che contrastano il vuoto del nulla e riempiono la metaforica strada di casa percorsa costeggiando i lampioni, i cancelli, le chiese, le campane. Punti cardinali dell’infanzia ai quali si aggiungono le briciole, i trucioli di matite, le figurine, le carte di caramello. Indizi che seguono una pista a ritroso e uno specchio su cui rivedersi e rivedere l’altro, soprattutto i parenti più stretti. Adesso siamo ciò che eravamo una volta, sembrerebbe suggerirci Argentino, come già i suoi estimatori avevano segnalato: da Dario Bellezza a Mariella Bettarini, da Dante Maffia a Plinio Perilli, ad Alessandro Zaccuri, a Sonia Caporossi. La scrittura è dunque un “rifugio del tempo”, secondo una felice espressione. “Ancora sente la pressione delle mani di suo padre sulle sue piccole spalle, mentre in un orecchio le sussurra dai una bacetto a nonno che nonna è morta. E poi il gelo dentro e il pianto – da un fondo che non sapeva – la battezzò al dolore”. Il senso di tutto ciò che perdiamo e recuperiamo con una semplice funziona psichica, ci trasporta in un doppio tempo, in una rêverie meditativa, nella capacità di stabilire una circolare cadenza scansionata dal fuoco di momenti, occasioni, stagioni, non eludendo dubbi e interrogativi, fastidi. “Arrossiva facilmente e il suo sguardo, smarrito, non sapeva dove deporre quel rossore”; “Fu in un’alba eccitata sull’isola d’Elba, con le barche che ondeggiavano quiete nel piccolo porto”; “La foto audace di Helmut Newton sul retro della porta”. Al principio cardine dell’autobiografia si aggiunge un secondo aspetto considerevole della raccolta di Lucianna Argentino: l’enigma dell’esistenza umana, nonostante tutto ciò che possiamo prevedere, avvertire, pronunciare, immaginare. Enigma come verità che non scioglie i nodi, ma che si intreccia astrattamente con il sapere ultimo. Il poeta trasfigura il bene e la morte apre un “sottofondo” dell’anima, per cui sembra di vedere ancora il padre in piedi, nonostante la figura sia quella di uno sconosciuto che “da lontano gli somiglia”. Dove andremo, cosa diventeremo? La poesia del corpo e dello spirito consegna “parole senza suono, ancora prive di voce nel completamento di moto per luogo”. Un risultato che conferma come la poesia non abbia una regola basilare, sia da un punto di vista metrico, che riguardo la costruzione di un modello di scrittura e di composizione estetica. E infatti Argentino esplicita anche il piacere della sua scelta che coincide con l’invocazione, appunto, del passato e con il passaggio al “presente irregolare” con un ritmo a volte turbinoso, altre volte pacato. Il silenzio allaccia un’intenzione ininterrotta, uno stimolo fertile, un avvio per abbandonarsi alla scrittura. Un silenzio leopardiano che si ascolta, per cui l’io è solo un pronome e l’infinito appartiene ad ognuno di noi, a dimostrazione che il pensiero ha una connotazione spirituale. La fede appare conciliabile con un amore invisibile (con una grazia, in definitiva). Il silenzio, tanto caro ad Argentino, è anche visione per una scoperta a venire: per noi, “che siamo e passiamo”.
Alessandro Moscè