ANTONIETTA GNERRE E IL TACCUINO DEGLI AFFETTI

L’io privato di Antonietta Gnerre (nata ad Avellino, è presidente del Premio Internazionale Prata e direttore artistico della Festa dei Libri e dei Fumetti di Avella) ha tutte le caratteristiche di un diario di bordo, di un taccuino dove le ombre dei ricordi e la natura si abbracciano metaforicamente tra le nuvole e i rami, le foglie, le case di una volta. Quello che non so di me (Interno Poesia 2021) è una raccolta dove la lingua si metabolizza in una scorrevolezza, in una limpidezza tali da coincidere con la sostanza delle cose. L’io dà voce ad una comunità di affetti, sottolinea Alessandro Zaccuri nella prefazione. La protezione e la custodia del sentimento attraversano, innanzitutto, il tempo, che l’autrice definisce “della semina”, e il sogno di una ragazzina diventata donna, la quale affida alla parola un andamento lirico, ciò che la riporta spesso al passato, al setaccio dei pensieri, ad una presa di coscienza consapevole: “Se ho pianto è perché da ragazzina / ho giurato / che avrei guardato in silenzio // la bellezza dei germogli svanire / davanti ai miei occhi”. L’io e il tu si parlano sottovoce, come quando Antonietta Gnerre, nella sua più bella poesia, ricorda il nonno Giovanni che costruiva gli aquiloni guardando le querce e pregava il “centro esatto del cielo”. Il padre, la madre, il figlio: più generazioni si affacciano in questa atmosfera risvegliata nelle stagioni dell’Irpinia: quelle del grano, del cardo, del cipresso, delle albe, delle nuvole che tornano ripetutamente. Stagioni “sigillate in un calendario” e dunque indimenticabili. “Mi dichiaro colpevole dei miei anni. / Adesso, per trovare il luogo del mio diciottesimo / compleanno, / devo cancellare tutti i volti che ho incontrato, / togliermi tutti gli abiti che ho indossato”. I luoghi di Antonietta Gnerre risultano stanziali, seppure inevitabilmente in transito anno dopo anno, così da accumulare reperti, folgorazioni raggiunte in un moto fisico e spirituale. Il destino umano conserva un’espressione di senso e il paesaggio della vita riserva sorprese in un affresco che salda tutte le età, soprattutto quella più matura, con l’aggiunta di tessere del mosaico appartenenti a vite anteriori, reiteratamente intercettate: “L’elenco del tu passato / lo leggevi di notte / quando i tuoi occhi / non apparivano nei pensieri. / Camminavi nel corridoio della tua casa / per comprendere / ciò che vibrava nel male”. L’ombra della poesia si allarga in un ubi consistam che non volge le spalle al ricordo e si coagula in un censimento di fotogrammi. Vengono inanellate verità, fitte di gioia, malinconie. Le sostericollocano la realtà immobile, riscattano il dolore del mondo, la paura dell’ignoto, la percorrenza della finitudine umana. La sorte e i grumi dell’esistenza, nonché il coagulo dei decenni, polarizzano l’attenzione nella “sentinella invisibile” (non poteva che essere il ricordo), nella metamorfosi delle attese e delle speranze in movimento come i corpi. “Il treno riparte / noi che guardiamo / né indietro né avanti. // Giuriamo su questo presente / che una parte del paradiso / è anche qui”. Antonietta Gnerre, in definitiva, si affida alla poesia perché non menta e restituisca i segreti immortali al pari dell’infanzia e dell’adolescenza.

Alessandro Moscè

Tags from the story
,
0 replies on “ANTONIETTA GNERRE E IL TACCUINO DEGLI AFFETTI”