Specie con l’avvento dei social ci rendiamo conto di come l’esaltazione e l’indifferenza aggiungano fiducia o ignoranza in modo incongruo, parassitario in ogni settore della vita del nostro Paese. Eppure la cronaca, spesso, supera l’immaginazione e ci sbalordisce di fronte agli apprezzabili risultati raggiunti da qualcuno che non entra nella nostra intimità, ma tocca le corde sensibili della salute, che è un bene pubblico, e fa progredire l’uomo da un punto di vista scientifico come non è mai avvenuto prima. Sembrerebbe, a prima vista, che si voglia penalizzare una certa ripresa dell’umanesimo, facendo compiere un salto di qualità alla scienza, alla razionalità, al progresso tecnologico. In realtà uomini e donne potrebbero essere i protagonisti di un romanzo-inchiesta scritto da un inviato speciale, se la loro passione e la loro competenza li enucleasse dalla finzione e li ponesse nella realtà, umilmente, al servizio degli altri. Ebbene, questo accade davvero.
Sfoglio un giornale ed ho un sobbalzo. Affondo in un fuoco che contiene tutto il mio mondo e la mia emorragia mai rimarginata. Il grande pubblico non conosce Alessandro Gasbarrini, perché sulla cronaca compare assai raramente. E’ un dirigente medico dal fare maieutico, un ortopedico sorridente ed empatico dell’Istituto Rizzoli di Bologna, specializzato nella chirurgia vertebrale a indirizzo oncologico e degenerativo. L’ultimo allievo di Mario Campanacci, il pioniere internazionale nella cura dei sarcomi ossei che colpiscono prevalentemente i bambini e gli adolescenti. Cosa è stato capace di fare questo medico che ha poco più di cinquant’anni, per salvare la vita di un uomo non più giovane, per scongiurare la sua disabilità, visto che non riusciva neppure a stare seduto da tempo? Ha rimosso un tumore alle vertebre installando una protesi in carbonio realizzata con una stampante 3D. Un intervento costoso, ma pagato dal servizio pubblico. E’ il primo caso al mondo nato da un’intuizione su cui Alessandro Gasbarrini ha lavorato con la sua équipe. Se sulle stazioni spaziali costruiscono pezzi in 3D per gli astronauti, perché non si potrebbe fare altrettanto per le vertebre di chi ha un tumore? La trasmissione televisiva “Le Iene” ha scovato il medico ed ha accertato che quel paziente sottoposto a otto ore di intervento chirurgico, camminava autonomamente dopo tre giorni. Incredibile. Questa storia ha un doppio binario: non si può scindere, è ovvio, dal supporto dell’ortopedia all’avanguardia, ma conserva un valore caritatevole, perfino oracolare. La sanità, quella che funziona, si incontra con le grandi storie degne appunto di un libro che soppianti l’ossessione per il giallo stereotipato o per l’ennesimo biografia familistica.
Torniamo al nostro eroe. Alessandro Gasbarrini innesta corpi ossei prelevati dai cadaveri, sostituendo tessuto umano con altro tessuto umano. Utilizza strumentari in fibra di carbonio come i telai delle biciclette. Rimette in piedi la gente che altrimenti sarebbe costretta alla sedia a rotelle o a vivere allettata. La nuova Eneide del guerriero valoroso si svolge in un campo di battaglia, in una guerra che ha una fascinazione diversa da quella dei miti antichi: priva di scudi, lance e spade sostituiti da bisturi, martelli e tronchesi. Se oggi dovessimo eleggere un Achille del Duemila, se dovessimo essere il profetico Prometeo, non attingeremmo ad un invincibile, ad un immortale creato dal volere degli dei, ma faremmo ricorso, appunto, alla cronaca, quella di una sala operatoria dove entra un moribondo ed esce un uomo sano, dove entra un corpo inerte ed esce un normodotato. Il traguardo che Gasbarrini vuole raggiungere è la sconfitta definitiva della paraplegia perché le funzioni organiche degli arti inferiori possano rispondere alle sollecitazioni dell’ultima frontiera chirurgica. Per ora può contare sulla Banca del tessuto muscolo-scheletrico, attiva al Rizzoli dal 1962 e che consente ogni anno di effettuare migliaia di interventi sulla scoliosi, sulle malattie oncologiche o sui traumi in ambito ortopedico, neurochirurgico ed odontostomatologico. Questa banca partecipa anche a progetti di innovazione tecnologica per la rigenerazione dei tessuti. Coraggio e intelligenza si trasferiscono su Achille che non conquista una città come nel poema epico, ma trasforma la presunzione di ognuno di noi in apprezzamento per ciò che il destino ha riservato a taluni luminari che lontano dai riflettori agiscono privi di vanagloria, imperturbabili.
§
La mia prima adolescenza fu all’insegna dell’inconsapevolezza, pur ritenendomi un osservatore timido che non sopportava i rimproveri. Mi ricordo perfettamente il giorno in cui la barra in fondo alla via si aprì e dalla gabbia del custode partì un cenno di saluto attraversi i riflessi violacei del vetro. L’Alfasud bianco sporco di mio padre salì la stradina alberata tra la caligine estiva. Mi sentivo vulnerabile a morte, con una spada conficcata nello stomaco. La struttura del Rizzoli è ancora incastonata in un complesso monumentale monastico dal pregevole valore architettonico e ospita opere d’arte: il chiostro ottagonale affrescato da Ludovico e Paolo Carracci e da Guido Reni, l’ex refettorio dei monaci ornato da Giorgio Vasari, la superba biblioteca affrescata nel Seicento da Domenico Maria Canuti. Il Rizzoli ha avuto la sua originaria sede nel complesso di San Michele in Bosco, ubicato sui primi colli a sud di Bologna. Il monastero è un organismo di pietra che colpisce per l’eleganza delle forme legate tra loro da un insieme spaziale, da un senso di chiusura e di riservatezza tra la chiesa, il campanile e i chiostri. La chiesa è una costruzione rinascimentale con reminiscenze romaniche e gotiche che guardavo con gli occhi all’insù preso da un senso di spaesamento che saliva e scendeva dalle gambe alle braccia.
Ho avuto a che fare con l’Istituto Ortopedico Rizzoli. Al primo piano c’era un corridoio che non finiva mai e dove nelle stanze ai lati, che appartennero ai frati, avevano allestito il reparto, il Cto (Centro tumori ortopedici). Mi sistemarono nella camerata con cinque letti. Come sanno i miei lettori, a tredici anni sono stato aggredito da un sarcoma di Ewing al bacino. Una malattia rara che allora, secondo la casistica dell’istituto, non riscontrava casi di guarigione. I sarcomi di Ewing si localizzano in aree diverse del corpo, ma hanno un’origine comune e caratteristiche simili dal punto di vista istologico. Provengono infatti da cellule neuroectodermiche, cioè da quei tessuti che, nell’embrione, danno origine al sistema nervoso. Se il male colpiva le ossa lunghe si procedeva con l’amputazione dell’arto, mentre se si sviluppava nel bacino le possibilità di sopravvivenza si riducevano al minimo. Fui ricoverato d’urgenza all’Istituto Rizzoli di Bologna, il 16 agosto del 1983, direttamente da un ospedale di Ancona dove avevo subito un primo, inutile intervento. Mi avevano dato pochi mesi di vita. Tra quei labirinti si aggirava Mario Campanacci, che arrivava al mattino presto e se ne andava sempre di notte. Mi dissero che venne consultato dagli americani quando a Ted Kennedy junior diagnosticarono un osteosarcoma. Salvarono la vita al figlio del senatore Ted, ma non l’arto. Mario Campanacci operava anche all’estero ed era considerato una celebrità. Svampito e assorto, burbero e gentile, si presentava come un concentrato di antinomie. Occhi lunari, capelli bianchissimi, distinto, è morto a meno di settant’anni dello stesso male che aveva combattuto quotidianamente. Il primo giorno che arrivai mi guardò con scetticismo. Sono convinto che mi considerasse già spacciato. Dopo l’intervento chirurgico mi confidò che ero un colosso, stringendomi la mano. Dopo dieci anni, nell’ultima visita di controllo, affermò queste esatte parole: “A quale santo ti sei raccomandato? Ti abbiamo restituito al mondo. Hanno trafugato la tua cartella, perché con te tutti ci abbiamo capito ben poco. Gli americani ti hanno fatto diventare un caso clinico”. Ebbi un conato di vomito e mi immedesimai in Sandokan che sconfisse gli inglesi nella sua piccola isola di Mompracem.
Alessandro Gasbarrini non l’ho mai conosciuto. Quella volta era uno studente che anni dopo sarebbe stato assistente di ambulatorio del professore. Avendo appreso della sua brillante carriera, lo stordimento del 1983 si è condensato in persuasione, constatando, lo dico con un po’ di rammarico, la superiorità della medicina sulla letteratura. Quello che sembrava triste è diventato solenne. Penso a Mario Campanacci, alla parola fine della mia prima adolescenza con la guarigione, al nuovo Achille, più che all’erede del professore. A volte sono preso dalla voglia di tornare indietro per indagare meglio i misteri della vita di ragazzino, ma sarebbe come riavvolgere i nastri dello stesso film e incontrare vecchi conoscenti, compresa la caposala con i capelli crespi; l’assistente sociale rasata, anticonformista, che fumava in continuazione; il napoletano che lasciò una scarpa nell’armadio dopo l’amputazione del piede; il bambino di Carpi che morì sotto i miei occhi finché mi separò da lui un paravento a quattro ante. Nella fosca sciarada non cambierebbe nulla. Anche la medicina, quarant’anni fa, si affidava al caso e non stabiliva alcuna norma. Del mio oroscopo, disteso nel letto, non sapevo nulla. Speravo solo di tornare a scuola.
Alessandro Moscè