A PROPOSITO DEI “DISCORSI SECONDI”

Non c’è dubbio che la critica letteraria sia in crisi soprattutto per la dirompente forza d’urto con la quale si è imposta la quarta rivoluzione (digitale) che ha soppiantato, da tempo, la conoscenza con la comunicazione e il discernimento con l’informazione. Di fatto assistiamo ad una mutazione della critica in cronaca non solo nei quotidiani cartacei, ma anche nei periodici di approfondimento. I libri non sono più analizzati con una perizia attenta a struttura, forma e linguaggio per capirne il senso e il valore, ma per lo più vengono selezionati sulla base di corsie promozionali e da logiche amicali. Stando al tema affrontato da “Tutto-Libri-La Stampa” del 15 marzo 2025, i “discorsi secondi” della critica, per dirla con Gianluigi Simonetti, vivono l’età della sofferenza perché la centralità commerciale è aumentata con l’accrescimento della scrittura di consumo, che trova una facile veicolazione sui social e nella sfera degli influencer, i quali, notoriamente, non sanno nulla di letteratura e sono portati a semplificare ogni argomentazione con luoghi comuni e giudizi tanto immediati quanto approssimativi seguendo l’andamento in voga delle classifiche di vendita. La mediazione culturale alla quale fa riferimento Simonetti passa nettamente in secondo piano. Anzi, se ne può fare a meno, dato che i critici di mestiere non spostano nulla in termini di vendite. Il fattore cruciale che contribuisce al successo di un romanzo rimane il passaparola, non controllabile, né direzionabile. Viaggia da sé ed è anche il presupposto sui cui si basa il lavoro del divulgatore che risponde alle strategie di marketing. Se nella politica italiana il populismo sta avendo la meglio, anche nella letteratura la società di massa (e di conseguenza l’utente omologato) produce l’effetto di una schematizzazione priva di competenza, proprio come avviene negli altri settori della vita pubblica.
Ma torniamo alla funzione della critica, o meglio alla sua incapacità di resistenza ai cambiamenti epocali. Quanto è determinante ciò che accade all’esterno, il prevalere di un modo di agire, rispetto alla responsabilità individuale di chi di critica si occupa stabilmente? In altre parole, quanto il critico contribuisce alla sua implosione in termini di prestigio, a partire dalla polemica sulle recensioni considerate accomodanti? Dove sta mancando la critica? Dove sta fallendo l’obiettivo? Un critico deve saper spogliare, vagliare. E allora vale la pena aggiungere che l’universo sterminato dell’online non rappresenta, aprioristicamente, un limite, una penalità. Se usate bene le riviste pubblicate su Internet possono costituire uno spazio autorevole, un di più che andrebbe coltivato seppure per una nicchia di lettori. Inoltre comparire su un supplemento culturale, come scrive Mario Baudino su “TuttoLibri”, resta fondamentale per gli autori e per gli stessi editori. Rappresenta un riscontro oggettivo in un paese dove escono 80.000 titoli all’anno, la maggior parte dei quali passano inosservati e non arrivano nelle librerie. Lo specialista, peraltro, si occupa anche di ciò che non è un prodotto di mercato e non lo è mai stato, se si escludono le ristampe dei classici: cioè il genere poesia, caotico ed esercitato da una moltitudine di persone, molte delle quali danno alle stampe raccolte di testi pubblicati da piccoli editori. In questo caso sarebbe più che mai utile l’intervento del critico engagé, possibilmente non condizionato da un’ideologia rafferma e da pregiudizi inopportuni. Insomma, non si scrive un libro solo per vendere. La scrittura letteraria è esperienza, testimonianza, visione. E’ lingua, testo. Qui nasce la differenza e qui si fonda il requisito della qualità da scovare. Giovanni Raboni, poeta, critico e traduttore, rimarcava che per i poeti delle singole culture minoritarie ne va della propria sopravvivenza in senso letterale, non metaforico. L’allusione è alla lingua nella quale si è immersi dall’infanzia, la lingua delle letture formative, la lingua usata dall’inconscio per fornire la massima profondità, il più suggestivo numero di associazioni. Il rischio è che una critica demotivata venga indirizzata dal prestigio dell’editore e sconfessi l’assunto del padre del modernismo: Charles Baudelaire sosteneva la necessità di andare in fondo all’ignoto per scoprire il nuovo.
Resta il problema di inquadrare la ricca produzione letteraria secondo dei criteri credibili che evitino di “scrivere sul già scritto” e di ribadire la canonizzazione del secondo Novecento perpetrata fino al terzo millennio, tendenza che fa leva sulla ripetitiva esaltazione delle figure note. La critica storicista va correlata ai cambiamenti sociali e dunque all’affacciarsi delle generazioni più giovani che tracciano, loro malgrado, un confine tra il vecchio e il nuovo nell’ermeneutica che fa interagire l’interprete con il testo e con un significato da contestualizzare. Ogni percezione e valutazione fa i conti con la realtà continuamente mutevole. Non a caso nel presente della post-verità la dispersione delle argomentazioni costituisce un magma indistinto, accantonando ogni gerarchia e dunque deprivando l’insieme degli strumenti teorici del critico, che viceversa dovrebbe scacciare le monete buone da quelle false, direbbe proprio Raboni, il quale alla fine del Novecento denunciava i segni della superfluità critica. Vengono a galla due aspetti fondamentali ai quali accennavamo: il disinteresse del pubblico nei confronti della critica letteraria e l’interesse dell’editoria per la risonanza pubblicitaria e non per il dibattito. Leggiamo interventi che ribadiscono una certa asfissia, una decantazione dei poeti deceduti, degli autori in voga da decenni. Come scegliere ancora una volta perché la critica, in un moto d’orgoglio, sia credibile nel panorama odierno soffocante e plurimo di produzione? Quale metodo può risultare ancora efficace? Ci permettiamo di suggerire l’orientamento seguendo una mappa orizzontale storico-geografica (Carlo Dionisotti) e un’intrapresa, altrettanto orizzontale, basata sulla distinzione delle varie generazioni (Oreste Macrì).
Gli scrittori e la critica sono da tempo entrate in un conflitto spinoso. Dice bene Marco Merlin quando sottolinea che oggi i migliori poeti non corrispondono ai più importanti poeti. Da tempo non emerge il dibattito fornito da una moltitudine di registri e dall’intersecarsi di linguaggi, strutture e attribuzioni simboliche. Come non menzionare Alfonso Berardinelli, che si è spesso interrogato sul ruolo del critico diviso tra l’accademia e il giornalismo, nell’invisibilità di un mestiere inserito tra storicismo, formalismo, strutturalismo, tradizione e una visione dell’attualità priva di schemi fissi? Forse una via d’uscita non c’è e i libri, in un prossimo futuro, si alimenteranno solo dell’attivismo dei loro autori. Le previsioni non promettono nulla di buono. Stiamo andando incontro ad un’informazione metastatica, scollegata, nella post-modernità dove il web registra una legittimità residuale di tutti e di nessuno e i “discorsi secondi” stanno morendo suicidati?

Alessandro Moscè

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