LA POESIA DELLA STRADA DI ANTONIO VENEZIANI

Se all’inizio del secondo Novecento una scuola romana c’è stata, la si deve ancorare ad una prassi che faceva dell’incontro il valore aggiunto e della letteratura il culto della rappresentazione di una realtà senza dubbio eterogenea, che ha avuto a che fare con gli stessi pittori, tra cui i capostipiti Corrado Cagli e Giuseppe Capogrossi tra gli anni Venti e Quaranta della prima metà del secolo scorso. Tradizione e modernità hanno dato slancio a sodalizi e a contaminazioni vivaci, tanto che oggi le case romane degli scrittori sono dei luoghi di culto. Narratori e poeti nacquero o decisero di vivere nella capitale: Moravia, Pasolini, Morante, Penna, Rosselli, Bertolucci, Siciliano, Bellezza ecc. Gli ultimi esponenti di quel primo, straordinario gruppo, sono Renzo Paris e Antonio Veneziani (nativo di Lugagnano Val d’Arda, di cui nessuno dimentica soprattutto Brown sugar, un libro capitale ristampato più volte). Carne e spirito, terra e aria fondano la poesia di Veneziani, la cui ultima raccolta, Il tempio dell’anima (Il Simbolo, 2025) riassume, in sostanza, il grumo di una lunga produzione che conserva nell’espressionismo e nel descrittivismo tipico proprio dei pittori, le forma che misura il senso. La strada e i muri, le figure che si dileguano come viste da un oblò, costruiscono il verso di un autore (anche raccontatore e drammaturgo) che pone in risalto l’uomo in un contesto decostruito, a volte ai limiti del surreale. “Ragazzo lo sai che in questa Roma squartata / gli aghi di pino discettano del moto perpetuo? / Intanto scende l’ombra dei muri / e si sparge odore di piscio e erba falciata”. Oppure: “Riempiamoci gli occhi / e le mani di sorrisi, / così non saremo costretti, / un giorno, a mendicarli. / Siamo zingari in cerca di abbracci”. Nella prefazione Maurizio Gregorini sottolinea che “i versi sono circoscritti in uno spazio dove il blu del cielo è utilizzato per osservare i presagi del destino nelle poesie consacrate al culto della divinità”. Una divinità laica è racchiusa in testi classici, ben strutturati, quasi epigrammatici. Nel quadro d’autore il patimento si espande per mutare, talvolta, in incanto. Nessun nichilismo, ma un tempio dove il dio di Veneziani abita lo spirito del poeta e dei suoi interlocutori senza identità, anime del ricordo, persone viste e perse, sfuggite e recuperate in una sorta di vangelo apocrifo che incarna la vita di uno “stradaiolo”, come Veneziani si definirebbe stando anche al titolo di una precedente, bellissima pubblicazione. “La mia vita, oltre la finestra, / si smargina e si inabissa / nell’asfalto con la pioggia”; “Il mezzogiorno nasconde ancora / orli di gelo. Appena uscito / dal mio esilio, mi imbatto in volti / che paiono pergamene sgrammaticate”. Veneziani non dissimula i sentimenti, ma li fa uscire dalle sue stanze e li lascia “volare” tra le rovine, sui marciapiedi, nelle stazioni, negli sguardi, nei passi infreddoliti della gente, ravvivandoli di stati d’animo in subbuglio: paura, inquietudine, insofferenza, meraviglia, gioia. Il sesso si insinua dentro un percorso accidentale narrato a brandelli, suffragato da un lessico trasparente. Trasparente come il cielo, come l’alba che rischiara il cielo tutte le mattine dopo gli adescamenti e gli abbandoni della notte. “Tentando di leggere / fra le righe dell’abbandono / mi sono fermato / ad origliare il battito, / non ignaro del disastro, / della mia umida stanza. / A quest’ora di notte / è di rigore avere un mondo / per abitarci”.

Alessandro Moscè

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