LA CITTA’ IN AMORE DI ALBERTO BEVILACQUA

Il 25 aprile e la libertà, la liberazione. Ne condensiamo il significato prendendo a prestito il romanzo Una città in amore di Alberto Bevilacqua. Uscì nel 1966 e nuovamente riscritto, con modifiche e aggiunte, nel 1970 presso Rizzoli. Un libro scandito in sequenze nel quale Bevilacqua omaggiò Parma e la rese corale, polifonica, epica. L’Oltretorrente è la terra di sangue e carne abitata da personaggi strampalati, folli, geniali. Tra tutti Guido Picelli (in gioventù era stato un orologiaio), che con la sua amante e le prostitute, fu al centro della narrazione imperniata sulla rivolta in campo aperto contro Italo Balbo nel 1922. Pochi mesi prima della Marcia su Roma un battaglione di fascisti converse su Parma per punire la città ribelle. I soldati del Regio esercito smobilitarono. La via di Parma era a disposizione delle milizie nere, ma Picelli e i suoi Arditi del Popolo, non più di 300 agguerriti, anarchici, socialisti, comunisti, popolari e repubblicani, costituirono difese, reticolati, barricate. Fu chiamata a raccolta l’intera popolazione, donne comprese. La battaglia durò una settimana e i fascisti si ritirarono. Il sanguigno Picelli ebbe la meglio ma fu costretto ad espatriare. Esule in Francia e in Unione Sovietica, nel 1936 si arruolò nella Compagnia del Battaglione Garibaldi e venne ucciso sul fronte di Guadalajara. Al suo fianco c’era Amelia, donna combattiva, la prima femmina padana descritta da Bevilacqua, che tratteggiò anche il carattere esuberante del prete peccatore, don Bell’Arma, nonché il quartetto di donne che convivevano in una casa d’appuntamento, decisivo in favore della Parma popolare con il potere della seduzione contro chi voleva la città terra di conquista. Polda, Emma, Ines, Nella furono le vivaci creature che si muovevano tra leggerezza e melodramma, tra intrepida volontà e vanesia frenesia di ammaliare. Quindi il vetturino Bordino, dall’aria beffarda, sensuale, con un agire imprevedibile.
Scrisse Geno Pampaloni nella prefazione ad una riedizione del 1975: “Per Bevilacqua, Parma è il teatro ideale dove inscenare con la massima evidenza le passioni del nostro secolo, il luogo in cui si riflettono simbolicamente tutti i luoghi della terra in cui l’uomo è ancora uomo, dove ogni accadimento, ogni storia, ogni persona subito si colorano di leggenda e campeggiano in una dimensione epica”.
Cronaca e storia, narrativa popolare estrapolata dall’oralità, dramma e melodramma si mischiano nel credere, semplicemente, che la libertà non abbia prezzo. Bevilacqua si lascia andare alla trasmutazione di un sentimento, di un tormento, di una condizione riversata in un canto della sua gente. Scrittura e vita coincidono dunque, sono l’impronta digitale di un presente spinto indietro nel tempo. Ci si muove tra ricordi comuni e gesti quotidiani nell’epoca del fascismo. Le accelerazioni e le combinazioni di mondi preservati che si fanno scrutare dall’uomo nella sua totalità, inducono a cercare la risorsa dell’immaginario. Quando inizia a scrivere, Bevilacqua circoscrive un ambiente ben determinato. Il ritmo indistinto delle sensazioni e delle atmosfere terrigene lo conduce ad accogliere la realtà che accade in un’impressione notevolmente suggestiva. I personaggi sono pretesti per scendere sul piano del dialogo, del rapporto intimo. Certamente le problematiche hanno un valore profondo e non sono solo il riflesso di un’autobiografica sofferenza. La nudità dell’esperienza di Guido Picelli e dei suoi arditi è nella nudità di una relazione con lo spirito che anima la terra, quella terra e non un’altra. L’evocazione si staglia davanti agli occhi, nell’immagine inquadrata soprattutto en plein air. E’ lo spazio della difesa umana, la parabola dell’esistere. Una città in amore si condensa nell’Oltretorrente, il quartiere più amato, più radicato nella vibrazione di un afflato popolare per trovare l’uscita di sicurezza dall’eclissi fascista dove tutto appare precario. Ci si accorge che l’unico miracolo possibile sta nella partecipazione, nel rendere solida una volontà comune per conservare l’agognata libertà.
“Amelia aspettò che uscissero. Poi scoppiò in una risata che fece voltare tutti quanti; e che riprese di notte, quando Guido la raggiunse in una camera e lei gli raccontò del voto fatto dentro al canale. Una risata a dispetto: prima della paura, poi del dispiacere. Ma fu bello ugualmente perché così riuscì ad entrambi di stare a lungo alla finestra, senza dirsi niente, guardando nello stesso punto dell’orizzonte, dove si illusero che avrebbero fatto viaggi di piacere, insieme ai loro figli e nella pace, invece di viaggi di dolore: soli e inariditi, come due povere piante secche”.
Il segreto della coscienza si riversa nel moto delle cose, in un sentimento dominante. Il racconto esplode quando si canalizza nelle impressioni e nelle sollecitazioni, perché non ci sono altri linguaggi che possono somigliare all’animo della gente, che possano sostituirlo. Il tono della narrazione risulta colloquiale, ansioso, come si trattasse di un prologo alla vita. Una considerazione dopo l’altra fanno di Una città in amore una voce mista volta a restituire la coralità che rende paradigmatiche le percezioni del reale. Il sentimento di Bevilacqua, nel suo intreccio fonico, lievita da una voce che esprime il dolore di vivere e la resistenza, la fierezza come prospettiva esistenziale. Ma la forza rimane soprattutto nel rigore, nel retroscena, in ogni aspetto agglutinante della vita, in un ideale che riabilita gli stessi rivoltosi antifascisti. Ogni apparizione è un’affermazione rinvenibile nei fenomeni, e l’io stesso tende ad essere scansato nella geografia dell’Oltretorrente, in favore del noi. Bevilacqua allude sempre ad una verità sottaciuta, che costituisce un nucleo omogeneo dell’intera scrittura. Guido Picelli in particolare, appare autoritario, slanciato in una grazia benefica, che ridà luce, che rigenera.
I borghi sono forme, brevi orizzonte dentro i quali si cerca un equilibrio, una sentenziosità che superi ogni lacerante contrasto, ogni contrazione della realtà. L’incubo è anche metafisico, ma le valutazioni rimangono legate per lo più ad un effetto terreno, ad un intimo sentire che oltraggia il passato e si va a relegare sullo sfondo. La realtà è costantemente minacciata da quel senso di oppressione fascista che coincide con la pronuncia del presente sfumato nell’irraggiamento di un altro tempo. Bevilacqua aggiunge sempre un commento, un’analisi ad ogni interrogativo immanente. La tentazione di dare una risposta viene bloccata, però, dall’impossibilità di comprendere tutto.
“Dio era una solitudine, nella quale l’uomo sembra così vicino all’uomo, essendone lontano nella realtà; ma su questa solitudine c’è pur sempre un amore che è uguale al sole giallo che illuminava, remoto, il porto di Ustica. E Dio era il silenzio che si gonfia di pianto umano, senza che nessuno possa essere testimone di questo pianto. Era la desolazione e la felicità con le quali ci si può guardare, anche contro le leggi della realtà, dimostrandosi reciprocamente di essere più forti”.

Alessandro Moscè

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