LA SCOMPARSA DELLA CRITICA

Il 6 gennaio, sulle pagine di “Avvenire”, Roberto Carnero ha riaperto il dibattito riguardo il ruolo della critica in un articolo dal titolo “Se il mercato non tollera la critica militante”. Vengono a galla tre aspetti fondamentali: il disinteresse del pubblico nei confronti della critica letteraria; l’interesse dell’editoria per la risonanza pubblicitaria e non per il dibattito critico; il venir meno, sostanzialmente, della valutazione critica. A questi aspetti aggiungerei la minor propensione a svolgere l’attività critica nelle riviste online che se costruite con serietà possono costituire un avamposto operativo e non solo uno spazio autopromozionale. Entriamo nell’ambito della bistrattata poesia, partendo dal dato di fatto che il settore, nello specifico, non rappresenta un prodotto di mercato (solo l’1% dei lettori italiani acquista libri di poesia). La poesia e la critica sono da tempo entrate in un conflitto spinoso. Sia perché il numero dei critici militanti si è notevolmente ridotto stando ai lavori editoriali, sistematici, sia perché manca una ricognizione ampia, non arbitraria, che faccia i conti con le poetiche attuali. Dice bene Marco Merlin quando sottolinea che oggi i migliori poeti non corrispondono ai più importanti poeti. Leggiamo spesso interventi che ribadiscono una certa asfissia. Mancano una scoperta che proceda per linee tematiche e una mappa orientativa, cioè una militanza “seria e costruttiva”. L’esperienza letteraria è sempre più dissipata. Non c’è dubbio che il problema rimanga legato indissolubilmente al giudicare, dunque al fare critica nel senso pieno del termine. Come scegliere perché si possa essere credibili nel panorama così plurimo di produzione? Dov’è finita la nettezza di giudizio che non si sofferma su rapide semplificazioni? Giudizio e gusto traducono una possibilità, una direzione che suscita l’interrogativo, quel fascio di luce da seguire nel comunicare la qualità e la forza dell’esperienza letteraria. Non c’è bisogno di scomodare Harold Bloom per capire che bisogna essere onesti al punto da capire che chi non sceglie ha già fallito, ma critica ha ceduto il passo alla tendenza della pubblicistica volta a soccorrere scelte à la page senza alcuna disamina foriera di discernimento. Carnero ha ragioni da vendere. Leggo poesia da sempre e riconosco una viva autocoscienza. Ma i critici necessari, dove si sono nascosti? Il dibattito fornito da una moltitudine di registri e dall’intersecarsi di linguaggi, strutture e attribuzioni simboliche, non emerge più. Tra l’attenzione alla buona letteratura e il disinteresse generale di adesso, il quadro odierno è completamente cambiato, trasfigurato, tanto che Raffaele Manica invita a leggere un classico ogni due novità, o due classici per ogni novità. Tra una società più attenta e un pubblico che non conserva granché della buona letteratura, la vicissitudine delle forme appare, in effetti, deprimente. Alfonso Berardinelli si è spesso interrogato sul ruolo di intellettuale, di critico militante (termine “strano e bellicoso”) diviso tra l’accademia e il giornalismo, capace di praticare un mestiere discutendo sui metodi inseriti tra storicismo, formalismo, strutturalismo, post-modernismo e una visione dell’attualità priva di schemi fissi. Lo scrittore invisibile (Gaffi, 2013) è un libro dove si evince immediatamente che per avere dei “difetti definibili” la nostra critica dovrebbe prima cercare di esistere, invece di suicidarsi nel cosiddetto maquillage culturale. Berardinelli rivendica, nonostante tutto, un diritto, “perché siamo ancora un paese scarsamente educato alla critica”. In fondo, per lo scrittore invisibile, la critica ha fallito laddove non è stata capace di discernere la stessa società, le idee, il costume pubblico. Il critico dovrebbe rimanere l’iniziato che avvia un’azione democratica, che interroga l’altro per il piacere, semplicemente, di far propria un’opinione. Tornando al punto di partenza si potrebbe lanciare una provocazione: se oggi nascesse un nuovo Attilio Bertolucci non se ne accorgerebbe nessuno. Forse ha ragione Franco Brevini, quando nel suo esemplare saggio Un cerino nel buio (Bollati Boringhieri, 2008) scriveva: “La crisi delle humanae litterae è il lento spegnersi di un solido, luminoso, mobile faro, che va progressivamente perdendo la sua millenaria capacità di illuminare l’uomo all’interno di una società in cui ogni generazione sperimenta un mutamento sempre più veloce e inarrestabile”. Andremo incontro ad un’informazione metastatica, sempre più scollegata, dove la frontiera del web registrerà una legittimità residuale di tutti e di nessuno. La funzione del critico militante è destinata a scomparire.

Alessandro Moscè

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