LA STORIA NEL MONDO SOMMERSO DI PAOLO FABRIZIO IACUZZI

Siamo in un’epoca che non ha mai avuto, dal secondo dopoguerra ad oggi, tanta irrisolutezza nel suo rumore di fondo e nel tentativo di sopraffare l’altro: conflitti, ostilità, tensioni che scivolano dalla condizione globale e senza confini, al piano individuale. La poesia, come è noto, non è esente dal catalizzare la dicotomia bene/male, perché per dirla con Mario Luzi, “non può essere scritta contro il mondo, ma è concepita dentro di essa”. Lo dimostra la raccolta di Paolo Fabrizio Iacuzzi Peste e Guerra (Interno Poesia, 2022) con l’eloquente sottotitolo La poesia non salverà la vita, comprensiva di testi elaborati dal 1982 al 2022. Iacuzzi vive tra Firenze e Pistoia (è nato nel 1961), in un ambiente fertile della provincia toscana rintracciabile, lungo i decenni, nel Caffè Paszkowski, nel Caffè delle Giubbe Rosse, nel movimento dei futuristi (Papini, Soffici, Palazzeschi), nelle riviste “Solaria” e “Campo di Marte”, nel ritrovo letterario dei protagonisti dell’Ermetismo e non solo: Pratolini, Gatto, Vittorini, Luzi, Macrì, Montale.
Iacuzzi ha scelto una selezione della sua vasta opera dialogando con Michele Bordoni: siamo dinanzi ad una rendicontazione tra sacro e profano (per stessa ammissione dell’autore), tra testimonianza e “inquisizione”, proprio a causa del supplemento di un poeta e critico che apre il vortice di impressioni tra corpus interrogato e interrogante, accompagnando l’opera con una lunga intervista sulla genesi della poesia stessa, sia da un punto di vista strutturale e linguistico (il “momento vocale”), che tematico (nel flusso della biografia e della storia). Iacuzzi disconosce la saturazione della forma e una combinazione recitante, gergale, inautentica. Si sente la vividezza nella complessità delle cose recepita nella capacità di ascolto, nella varietà tematica dove il modello ideologico è respinto in funzione del ciclo ritmico e polifonico della “parola che svela”. Iacuzzi intreccia un insieme di reperti (indizi, occasioni, circostanze) che spaziano per tempi e luoghi e che sono assemblati in una ghirlanda di rami separati e modellati per un “giardino fiorente”, metafora del viaggio sensoriale che entra in rapporto con il mondo fungendo da strumento di conoscenza. Sono eloquenti alcuni versi iniziali dedicati al padre ormai immobile “verso il buio”. “Eri immortale per pochi istanti quella mattina / avevo furia, intanto il cielo azzurro: / vegliava esangue in silenzio con gli occhi / spremuti s’allontanava a grandi passi”. Nel rimando del verso senza soluzione di continuità, che vira dal soggetto alla collettività (dalla sfera affettiva, intima, all’universo sociale e comunitario) erompe la potenza della storia (“una vasca di gente stremata”) e nello sfondo la peste, una calamità infettiva, la maledizione imposta dal destino, impossibile da debellare. Iacuzzi allude spesso al secolo scorso e, da par suo, lo inquadra inesorabilmente: “Da quando il Novecento è finito e i bambini / chiamano da ogni finestra cieca / da ogni lager / di Germania Italia e Albania. Da quanti anni / non parlano”. Si torna a sparare e ad uccidere nei cicli e ricicli vichiani come legge dei fatti, mentre aumentano il fuoco delle domande, i vincoli e le costrizioni, il contrappeso tra la ragione e il virus della storia, tra il bene sfumato, irrecuperabile, e le macerie della polis. L’ingranaggio della bicicletta (Bianca, come il nome della nonna) è montato in una sequenza di immagini nel cosiddetto mondo sommerso, come lo definisce Bordoni, un frammento infantile, un’animazione che si collega con ciò che il poeta, attraverso i suoi flash back, costruisce nella macchina teatrale (ad esempio la deportazione dei profughi, tra i quali il padre, dall’Elba alla Germania). Se da un lato si fa strada la cristallizzazione del simulacro (l’automa), dall’altro acquisisce energia il movimento del corpo nel cambiamento. Si ha l’impressione che Iacuzzi sia concentrato sull’orientamento civico (più che civile) della letteratura, sul teatro della mente che riproduce gli eventi (grandi e piccoli), il male visibile, il simbolo di tragedie circoscritte e annichilenti, come nel testo Patricidio a New York: “Io non so cosa cadde quel giorno dalle Torri Gemelle / dentro me. / Avevo appena ricevuto i risultati e quando / caddero le Torri ero già caduto nella cartella delle analisi. / Così seppi che c’era oltre di me un altro che cadeva // cadeva come i coriandoli a Carnevale”. E’ stato detto che la poesia di Iacuzzi procede nel quadrante di una rapsodia epico-lirica (Gabrio Vitali). Da segnalare anche l’intuizione di Andrea Temporelli: “La poesia di Iacuzzi è un punto di passaggio generazionale, un crocevia di tensioni che portano a termine e aprono questioni fondamentali e paradigmatiche”. Ogni ricostruzione, non solo materiale, è supportata da un impeto memoriale e antropologico, nel transito tra il passato e il presente che tutto trasfigura nell’alveo rappresentativo di individui estranei, di trame esistenziali non di rado oscure e incomprensibili. Iacuzzi sa trovare una sospensione, una fermata contro la rutilante quotidianità, una tessera inserita in una tarsia di minuti pezzi, dunque nella giustapposizione dell’ontologia, in quella polarità umana che non può non rimandare a Piero Bigongiari.
Questa esperienza poetica non è esente dall’eredità e dal plurivociare codificato del secondo Novecento: oltre al già citato Bigongiari, aggiungiamo Porta, Pagliarani, Giudici, Cucchi, Carifi, per restare alla produzione italiana contemporanea, in cui la cronaca, la storia, il mistero, la ritualità e l’episodio sincopato ri-creano la realtà anche in chiave onirica. La descrizione, infatti, è supportata dall’elemento immaginativo, superando, nella meditazione, ogni logicità e prevedibilità. “Siamo ancora vivi per il tè delle cinque. Io e te nel grande / salone in cima a casa. Sospeso il tempo nel corso normale. / Quando siamo coi morti che non ci amano più. E noi la sola / radice. Scampata a Edipo. A ogni complesso”.
La realtà con le sue rifrangenze rinnova la partecipazione umana: il poeta si mette alla prova con la storia e con la coscienza critica alimentando i flussi inarrestabili delle tante vite affermative. Nell’antologia critica Poeti italiani nati negli anni ’60 (Interno Poesia, 2024) Francesco Napoli focalizza, non a caso, il corpo a corpo di Peste e Guerra dove l’azione mediata dei personaggi si dipana nella sdrammatizzazione degli avvenimenti e si inserisce negli elementi scenografici, “con quinte e pannelli mobili a simulare le variazioni di orizzonte e di paesaggio nella vita e nella storia”.

Alessandro Moscè

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