In un saliscendi di colline arrotondate tra spazi di erbe fluorescenti e gialli di frumento dorato, tra alberi secolari che fanno pensare alle incisioni del cuprense Luigi Bartolini, si arriva a Trecastelli, nelle vicinanze di Senigallia, in provincia di Ancona. Un paese con una piazza circolare sormontata da una torre imponente, dove si conserva l’opera artistica, in prevalenza pittorica, di Nori De’ Nobili, esposta nel Centro Studi sulla Donna delle Arti Visive Contemporanee. L’artista nata nel 1902 a Pesaro, dal 1938 al 1968 fu ricoverata in un istituto psichiatrico di Modena (Villa Igea). Trascorse parte dell’infanzia e della giovinezza estiva a Brugnetto, all’ingresso di Trecastelli, nella dimora settecentesca denominata “Villa dalle cento finestre”. Il padre era un ufficiale di artiglieria, la madre una nobildonna discendente dal Cardinale Nicola Antonelli. La famiglia si spostò spesso, fino ad arrivare a Firenze, dove Nori De’ Nobili conobbe un ambiente florido, rappresentato in particolare dall’arte di Ottone Rosai e Mino Maccari. Qui, nonostante il parere contrario del padre e della madre, frequentò lo studio di Ludovico Tommasi, caratterizzatosi per l’utilizzo di un cromatismo acceso nelle composizioni specie naturalistiche. La vicenda pubblica e privata di Nori De’ Nobili si intrecciò con quella del critico Aniceto Del Massa, grazie al quale partecipò alla IV° Mostra Regionale d’Arte Toscana nel 1930. Il museo permanente di Trecastelli è semplice, ma ben allestito. Risalta agli occhi, nelle quattro stanze, l’ossessione per l’autoritratto, dove la protagonista sembra vedere ma non guardare, persa in una fissità scura, tristemente assente, seppure il vestiario sia ricco di colori e panneggi, curato, tipico di una donna altolocata (più volte vengono raffigurati anche la sorella e il fratello, quest’ultimo morto prematuramente). Il collo allungato e la pettinatura che cambia spesso, non modificano, però, l’espressione marmorea, quasi che la pittura si accosti volutamente al bassorilievo, con volti affilati e asettici, in un piano sequenza dal quale emerge il disagio e l’emarginazione di chi vive in una casa di cura. L’uomo è guardingo, sfuggente, una figura estemporanea, sempre di stampo espressionista (Kirchner, Kokoschka), con una connotazione che pensare all’Art Brut: primitiva ma non grezza, tipica di chi opera al di fuori delle norme convenzionali, da autodidatta, in ambienti costrittivi: un’arte spontanea che non difetta di riflessione e stile. Colpisce, nelle opere realizzate su olio e nel cartone, la presenza del gatto con il bulbo oculare esposto come fosse una biglia, che assiste la pittrice mentre suona strumenti musicali, che custodisce fedelmente il suo segreto, la depressione di chi è confinata nelle mura dell’ospedale, dal quale Nori De’ Nobili uscirà solo con la morte (nel 1968). La testimonianza di sé rimarca l’influsso dei Macchiaioli che catturavano la luce all’aria aperta, un delicato contrasto tra ombre chiaroscurali. Non mancano spunti che nascono sicuramente dalla conoscenza di Giorgio de Chirico e del surrealismo metafisico (le statue, il tempio, le teste mozzate deposte a terra). Altra peculiarità dell’opera di Nori De’ Nobili è il carnevale. E’ probabile che durante il giovedì grasso, come succedeva spesso all’epoca, saltimbanchi e pagliacci prelevati dai circhi facessero visita nei manicomi e negli istituti privati. Non mancavano le feste e i travestimenti, che si notano più volte nelle mascherine nere, nei cappelli cilindrici, nelle stelle filanti, in quei rari momenti in cui il quadro trasmette evasione, socialità.
Alessandro Moscè