Maurizio Cucchi (nato a Milano nel 1945) ci ha abituato da quasi cinquant’anni ad una scrittura minimale, dove all’osservazione nuda corrisponde un sensore che cattura il particolare, di solito situato in un anonimo contesto urbano, in un marciapiede riflesso nell’occhio silente, in una città connotata dalle piccole cose, in volti e bagliori occasionali (sin dalla straordinaria prova iniziale del 1976, Il disperso, edito da Guanda). Il luogo del camminatore si attaglia da sempre alle dimore della mitologia familiare, a tracce disseminate in più punti nebulosi, in un fondo oscuro riportato accortamente alla luce. Come non menzionare, in proposito L’ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999). Talvolta i versi si distendono in una dimensione surreale, di veglia e sogno, che accompagna gli episodi rapsodici della memoria come emersi dal fondo di un’acqua profonda. L’ultima raccolta poetica di Cucchi, dal titolo La scatola onirica (Mondadori, 2024), va proprio in questa direzione, catalizzando l’attenzione del lettore nella frammentazione episodica, più immaginifica che reale. Nella sezione d’apertura, un paese in provincia di Pavia, Casa Cucchi, apre la strada per il riconoscimento identitario dell’uomo, ma anche per la traversata a ritroso del lignaggio per scoprire possibili radici, similitudini tra antenati: forse allevatori, possidenti, casari. Cucchi, aprendo la sua scatola, perlustra ciò che è successo nel passato e ciò che non è rimasto: i secoli rappresi in una “mentale escursione” mai del tutto nitidamente ri-formata, ma che si dirada in una visionaria coscienza, in un pensiero labile, per lo più disinteressato all’oggi, che riecheggia in una voce appena udibile. Definisce gli abitatori della città lombarda di confine “estranei a homo oeconomicus”. “Ma quanta nascosta vita, allora, / rivive nei nomi dei luoghi e della gente, / nel lento e indifferente costruirsi / di legami e lignaggi. E neppure / ci pensiamo, ormai…”. Si affaccia anche un alter-ego: l’accompagnatore Sabatino, non una guida virgiliana, ma un amico benevolo e fedele. La macchina onirica, in questi componimenti, è proprio un mondo che appartiene di diritto al poeta: i sogni si dispongono nel passato e nel futuro, replicando Graham Greene nella frase inserita in esergo alla seconda sezione. Macchina del sogno che agisce per il poeta-spettatore assorto in un’atmosfera di attesa e di quiete: i dettagli si avvicendano come le persone tra indizi mai del tutto rinvenibili. Sono, al pari di chi li coglie, tanto lievi quanto labirintici. Ecco alcuni tra i versi tra più belli che escono dalla scatola onirica, una lampada di Aladino che non esaudisce i desideri, ma che come l’oggetto magico svelano il battito dell’anima: “Sono ancora qui, dunque, dedito / alla mia più nobile, vocazionale / occupazione, con umile adesione / e attesa: il sonno, a cui mi consegno / nei suoi vagabondi e arbitrari / intrecci onirici”. Scrisse anni fa Enrico Testa sulla poesia di Cucchi: “Un principio di personale consistenza è visto come questione più che come premessa dell’autosufficienza dell’io”. La liricità narrativa si misura con il vagabondare che ricompone la quotidianità, un tempo incerto, in equilibrio tra la sparizione e il ritorno delle figure che appaiono ininterrottamente in un “impasto informe”. La visitazione di Giovanni Raboni, il padre, ne è un esempio, come l’eleganza della sua forma poetica e la celebre comunione (comunità) dei vivi e dei morti, messaggio che proviene da un aldilà inaccessibile e mai descritto. A differenza del destino umano, di un avvenire dubbioso per lo più inseguito nel ricordo degli scomparsi: “Gli amici sono spariti o sparsi: / il vento li ha portati via, / amici che il vento se li porta / e che soffiava davanti alla mia porta”. Rimane il turbamento di qualcosa di non esprimibile con la sola parola, un disagio esistenziale elevato “nell’immenso mistero dello spazio” che un’opera di Lucio Fontana suggerisce nel suo “vorticare di energie”. La poesia di Cucchi, nutrita di essenzialità, si salda anche nello spossessamento delle cose per abbracciare, talvolta, una dimensione aerea lacerata dai segni della distanza tra il conoscere e l’imponderabile, in un’andatura composta, fluente, ben leggibile nella colloquialità. “Vorrei passeggiare anch’io, forse stranito, / forse assorbito, tra quei sette palazzi / celesti o forse invece grigi per il mio povero / occhio, sotto un buio pervasivo”. Cucchi si assoggetta ad un’attenzione passiva nei riguardi di ciò che percepisce di volta in volta, tra l’alternarsi argomentativo e le immagini che fa proprie in una meditazione interiore che sconfina nel classico altrove (sognato e dunque misterico, mutevole). Un altrove dove l’esistere non cessa di dare segnali, dove i fili della visione si allacciano ad un catalogo nostalgico, adolescenziale, colmo di “lontananze mute”. Il viaggio nel tempo, dunque, percorre strade conosciute e torna negli ambienti circoscritti, sia geografici che pertinenti al disigillato teatro della mente.
Alessandro Moscè