Ci sono poeti come Pavel Aleksandroivić Florenskij che non hanno granché dimestichezza con il tempo lineare, bensì con il tempo circolare che torna indietro con in un effetto boomerang e procede nell’impossibilità di oltrepassare una certa “separatezza”. Poeti che fanno i conti con il cardine dell’esistenza terrena segnato, inevitabilmente, da un prima e da un dopo che non si materializzano mai. Cioè poeti la cui nascita e morte sono punti contigui, non fenomenici, di un’esperienza più vasta e inesauribile che coincide con un’oggettività espansa, come avessero un’antenna ricetrasmittente capace di captare l’inquietudine assoluta che svia il tempo presente guardando oltre. Non parliamo necessariamente di poeti metafisici, ma di coloro che si interrogano sull’eternità come proiezione di un principio storico che si eleva al di sopra di ogni contingenza per delineare una prospettiva osmotica tra l’individualità e un umanesimo inquieto.
I miei ricordi di lettore non avevano ben impresso nella mente il valore di un autore notevole come Florenskij, capace di versi dalle combustioni repentine: “Nel balenante splendore dell’Ideale, / nel principio retto / la tua anima ha sempre cercato / la tensione al fine cosmico”. Florenskij è stato un mistico religioso, un eclettico sacerdote della chiesa ortodossa, un teologo, un teorico dell’arte, un matematico e un critico specie del razionalismo. Nacque a Yevlax (località nel distretto di Dževanšar, entro i confini dell’attuale Azerbaigijan). Il padre, Aleksandr Ivanovič, era un ingegnere che lavorava alla ferrovia transcaucasica, mentre la madre, Ol’ga Pavlovna Saparova, discendeva da una nobile famiglia armena. Florenskij venne imprigionato più volte con l’accusa di oscurantismo e ritenuto socialmente pericoloso. Conobbe gli anni duri del gulag e l’8 dicembre del 1937 fu fucilato.
La vasta conoscenza dei fenomeni terreni e un forte interesse per le lingue antiche e le scienze bibliche portarono Florenskij ad indagare l’altrove, quel dopo morte (o meglio il seme della morte) ripetutamente anelato, come emerge nella raccolta Poesie edita nel 2024 da Aragno. Basterebbe citare questi versi per definire un paradigma e una sfera innestata in una fase liminare: “Se siamo destinati alla morte, / perché non abbiamo paura? / Ci aspetta la tenebra della morte, allora perché stare allegri?”.
Il dualismo buio/luce si ripete in un incrocio che dirama la via e auspica una “volta celeste” che annienti la supponenza, il fanatismo dell’uomo terreno, che alimenti il sorgere dell’alba, del sole (“il fascio di raggi”), rompendo l’opacità delle nuvole, “la coltre delle opprimenti nubi”. La cosiddetta celestialità è calata amorevolmente dall’alto, deposta a testimoniare il significato radicale dell’essere, la Shekinah, che nell’ebraismo è uno dei nomi di Dio che esprime la sua presenza nel mondo, come annota Lucio Coco, che del volume ha curato l’introduzione, la traduzione e le note. Poesie, in fondo, risulta anche un inno alla vita perché l’anima ritrovi sé stessa e il bisogno del Creatore, come quando, metaforicamente, Florenskij immagina di scorgere l’eternità che va e viene nell’ampiezza dell’onda del mare. La nebbia e il caos nascondono il sole (“la lancia color zafferano”), la verità, in definitiva l’eternità. La circostanza, racchiusa in un cambiamento di agenti climatici, ricorre spesso in una sferzata allegorica che non è solo provocata dalla luce atmosferica. Tra vicende reali e oniriche, psichiche e amniotiche, congegnate in un’espressività dove ogni testo è un organismo autonomo, Florenskij inquadra la direzione finale che dalla terra va verso il cielo e viceversa. Le forme sensibili fanno parte di un destino ossessivo, dove agli “ondulati ovattati fiocchi” e al sudario della nebbia, corrisponde il “raggio dorato”, il fuoco che ha la supremazia, che squarcia il male, la materia, che irrora la roccia, che riflette l’infinità. “Ecco l’inganno è tolto – / le coltri, / e nuovo / il mondo a noi si mostra. / Una rondine / vola. / E di un quieto – azzurro / zaffiro diventano / per noi le lontananze. / I campi assumono il color d’ambra / delle azalee…”.
La dimensione religiosa (l’infinito nella conoscenza) è incarnata dalla figura della Vergine, dalla Soccorritrice che accende la luce, parafrasando un verso. E’ la Madonna l’astro eterno, la rosa purpurea che vince il peccato, immutabile nella purezza che porta in seno la parola redenta sia sul piano esperienziale che simbolico. Florenskij si rivolge alla Vergine sublimando la morte nel principio attivo del suo agire che racchiude l’adesione alla salvezza. L’operazione metamorfica della Vergine, donna eletta tra le altre, è l’esperienza più alta nel reale, nella storia e nella trascendenza che trasmette lo spessore della rivelazione accanto al Figlio e a Dio. Il polo concentrico della poesia di Florenskij, pertanto, germina nel culto evangelico supportato da un’argomentazione gnoseologica, altalenante tra visione e contemplazione, tra finito e infinito.
Alessandro Moscè