LA SCRITTURA LIBERATORIA DI ANDREA DI CONSOLI

Ci sono libri facili e libri semplici. Andrea Di Consoli (scrittore, critico, documentarista, giornalista nato in Svizzera e di origini lucane), con Dimenticami dopodomani (Rubbettino, 2024) ha scritto un libro semplice, ma tutt’altro che comodo e conciliante. Pagine ibride, che non sarebbe esatto definire prose poetiche. Lettere, appunti, considerazioni inattuali, un patchwork letterario con una plasticità compositiva che colpisce direttamente al cuore. Di Consoli non finge e probabilmente non saprebbe più comporre un romanzo nell’accezione tradizionale del termine, perché preferisce di gran lunga l’atto liberatorio della scrittura carne, come dice Mario Desiati nell’introduzione. “Il corpo cambia e dunque anche le aspirazioni, qui si pratica un esorcismo che conduce chi legge a conoscere un’anima contraddittoria, dunque universale”. Una prova simile l’avevamo constatata nei precedenti volumi: Diario dello smarrimento (Inschibbolet, 2019) e Tutte queste voci che mi premono dentro (Editoriale Scientifica, 2021). Di Consoli mette a nudo una disperata vitalità (pasoliniana) e vuota il sacco esprimendo ciò che ha dentro, intrecciando passato e presente, infanzia, adolescenza ed età adulta nei vari posti del mondo, nel movimento frenetico che lo porta, per lavoro, a spostarsi spesso da Roma, dove vive. Sbagliando, gli hanno detto che la sua è una scrittura triste. No, invece siamo dinanzi ad una scrittura affidabile, che non inganna il lettore, ma lo coinvolge emotivamente e lo trascina in un confronto a tu per tu con la perdita delle cose e la morte delle persone, con la noia e la fatica quotidiana destinate ad essere dimenticate senza una ragione. “A me mancheranno le cose fisiche, morendo. Cose che tra qualche secolo non avranno alcun significato – cose transitorie, senza alcuna pretesa metafisica”. Gli incontri con la gente comune, gli abbracci con uomini e donne sconosciuti, le albe insonni, il pianto, il vagabondare, la solitudine, l’ipocondria, il rapporto con figli e i genitori, la terra d’origine come luogo prediletto, sono schegge catapultate nel disincanto di chi sente l’angoscia premergli sul petto e togliergli il respiro. La poesia serve a dare dignità nei momenti peggiori, come l’amore, come il bisogno degli altri, “atroce e meraviglioso”. Dicevamo della morte, ossessivamente cercata e rinnegata, ammaestrata: “Vorrei che la morte non fosse una cosa che riguarda l’avanti, ma l’indietro, come un annullamento della vita – un modo per fare, come un mago con la bacchetta, che il dolore non c’è mai stato”. Tra gli altri episodi, il brindisi con un arabo in un prato di Fuorigrotta a Napoli; il camminare spaesato a Villa d’Agri, il paese dove estraevano il petrolio; una notte passata in un albergo di Cassino senza un motivo; il panico e la paura improvvisi a Gerusalemme; l’entrare di nascosto nei reparti di chirurgia degli ospedali; il sedersi nelle panchine dei parchi desolati. “Bisogna avere indulgenza e pazienza, anche perché tutti quelli che incontriamo, che baciamo, a cui stringiamo la mano, hanno la ventura di stare nello stesso punto insensato dell’universo, e per quanto diversi, per quanto orrendi, per quanto deludenti, condividono con noi un eguale destino, un eguale batticuore, un eguale bisogno di calore, anche se noi esseri umani abbiamo questa strana vocazione a farci del male, a ferirci, a calpestarci”. La vita si sfilaccia, tradisce. Si muore, e con noi muore la giovinezza, la bellezza. Muoiono anche il piacere, l’infedeltà subita e arrecata. Ma l’inarrendevole bisogno di testimoniare il mondo rimane immutato.

Alessandro Moscè

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