Dal 2010 Silvia Avallone (nata a Biella nel 1984, vive a Bologna) ci ha abituati a romanzi dove il sisma interiore e una cifra intimista costituiscono l’ossatura di storie imperniate su giovani protagonisti in cerca di un’identità dopo aver attraversato l’angoscia e la solitudine. Ne è un’ulteriore conferma Cuore nero (Rizzoli, 2024), un romanzo certamente compiuto, dove si bilanciano la sventura e la condanna con la redenzione e la salvezza, nonostante il passato, così ingombrante, rimanga un’ombra che non si può cancellare. Partiamo dalla trama. L’unico modo per raggiungere Sassaia, minuscolo borgo incastonato tra le montagne dove spesso nevica, è una strada sterrata, ripidissima, nascosta tra i faggi e la roccia e con il cielo sterminato sopra la testa. Emilia, trentenne, ha i capelli rossi e crespi, è magra, indossa gli anfibi viola e il giaccone verde fluo. Dalla casa accanto Bruno, maestro elementare invecchiato prima del tempo, assiste al suo inaspettato arrivo. La donna ha l’accento “foresto” e porta con sé borse e valigie. Dunque non è di passaggio, ma è venuta ad abitare proprio nella sperduta Sassaia. “Aveva le occhiaie, gli occhi smorti come quelli dei pesci nelle cassette di ghiaccio al molo di Marina, la pelle di un pallore tale che le lentiggini spiccavano simili a lenticchie nel latte”. Bruno intuisce una voragine dell’anima, un buco che non si può riempire, qualcosa di nascosto che l’accomuna terribilmente ad Emilia, venuta a rifugiarsi in un luogo fuori dal mondo. Silvia Avallone ha dichiarato recentemente che i luoghi sono davvero dei genitori, perché ci ostacolano, ci educano, ci curano. Nel corso della lettura apprendiamo che Bruno è stato vittima del male e che Emilia il male lo ha esercitato. Silvia Avallone capta due esistenze sghembe, il buio dell’angoscia scoperta, la resistenza a sensazioni che generano una ferita che rimane aperta. L’io narrante Bruno puntualizza: “È stato in quel momento, con la luce del giorno che filtrava a forza dai fori della tapparella, che ho deciso, appena fossimo tornati a Sassaia, di scrivere. Scrivere tutto. Era l’amore la risposta. Se ami una persona, non puoi prescindere da quello che è, ed è stata”. Bruno ed Emilia cercano un’alternativa, uno scatto in avanti per esorcizzare il male, per scrollarsi di dosso due orrendi episodi che hanno segnato e travolto le loro vite. Cuore nero rende possibile l’amore, nonostante tutto. Un amore nascosto sotto la polvere, complesso, impaurito, smarrito, a volte paralizzato, fatto di tentennamenti e fughe, di confessioni a metà, di rinuncia e ripresa. E’ stato detto, giustamente, che questa è una vicenda civile che riguarda tutti, perché ha a che vedere con il carcere e il dopo, con la rieducazione e la scuola. In fondo con il futuro. Per amare fino in fondo è necessario rivelarsi, vuotare il sacco, non nascondersi, nutrire fiducia: insomma, riparare l’irreparabile. Il romanzo fa del dialogo il termine di confronto, specialmente visivo, con l’altro. L’occhio, come in tutti i libri di Avallone, è il fulcro dell’indagine fenomenologica, soprattutto quando si tratta di sfatare la persistente ossessione di ciò che è successo. In queste pagine i corpi parlano nella tensione evocativa ed espressiva: “Ho chiuso gli occhi d’istinto, mezza cieca, ho sentito le gambe che stavano cedendo. Il mio respiro rimbombava dall’interno. Il cuore invece era lento, lentissimo, come se stesse per fermarsi”.
Alessandro Moscè