JOSE’ TOLENTINO DE MENDONÇA: LA POESIA E’ UNA GUERRIGLIA

I poeti, nei molteplici orientamenti che possono seguire, segnalano spesso una verità che emerge dalla forma di rappresentazione, suprema, della nascita e della morte, dell’amore, della perdita, del tempo ecc. Lontano da un’operazione puramente letteraria, estetica, tipica dei virtuosismi dello sperimentalismo novecentesco, la poesia odierna procede in un contesto difficile da comprendere se non costruita su una base solida, soggettiva, sulla quale fondare le proprie, esplicite ragioni. Al di là dell’aspetto strutturale e linguistico, l’irriducibilità della scrittura e della materia poesia esprime una sorta di insubordinazione quando l’autore si immedesima nell’altro, quando lo veste e lo racconta qualunque sia il contesto storico e geografico che lo accoglie. Quando cioè sfugge a tutto ciò che vede e delimita nel conformismo di maniera e nella dicibilità dell’io. Molto più complesso risulta mettere le mani nell’invisibile, se è la dissidenza, l’interpretazione, l’incredulità a dominare il senso della vita tenendo l’orecchio in ascolto, connettendo il sapere e il non sapere tra singoli individui. E’ questa la proposizione dalla quale parte José Tolentino de Mendonça con la raccolta Estranei alla terra, appena edita da Crocetti e che contiene la prefazione di Alessandro Zaccuri, mentre la traduzione è a cura di Teresa Bartolomei. José Tolentino de Mendonça (nato nell’isola di Madeira), cardinale e teologo portoghese, prefetto del dicastero per la cultura e l’educazione, è considerato una voce originale della letteratura europea moderna, autore anche di saggi e testi di spiritualità (di recente, in Italia, gli è stato conferito il Premio LericiPea dei Poeti 2023 alla carriera). Estranei alla terra raccoglie due libri, Strada bianca (2005) e Teoria della frontiera (2017), considerati, per stessa ammissione del poeta, un’apostasia, una guerriglia consapevole, come la maggior parte della produzione di questo originale intellettuale cattolico. Apostasia: termine utilizzato per la verifica di un’asserzione che ha poco a che vedere con la realtà trascendente, metafisica, ma che si coagula intorno all’asse portante della mancata conoscenza di biografie, storie, retaggi, indirizzi specifici nella terra di nessuno (appunto estranea). Tanto che de Mendonça scrive che “una poesia abbraccia precisamente l’impurezza che il mondo ripudia”. “Siamo una cosa nel nostro corpo / lenta e assoluta di cui non veniamo a capo / odore, legge, aspetto / che si apre nel buio // che si alza giace ancora steso a terra / quel che possiede non riempie la metà del suo regno / e malgrado fissa dimora e orari stabiliti / è per strada che dormiamo, a cielo aperto”. L’uomo di chiesa è uno tra gli altri e non fa distinzioni tra le copiose vite, anche le più neglette. Il suo sguardo è un’avvisaglia, una precisazione e una partecipazione alle sorti dell’umanità intera, da qualunque parte l’obiettivo si sposti inquadrando il corpo ferito, simbolo che porta con sé il dolore, l’irrisolutezza nascosta, “l’intensa solitudine della tempesta”, “i luoghi senza risposta” che Dio vede e accoglie. Ma nei versi non si decanta la ricerca di un altrove e la risposta alle grandi questioni, il bisogno religioso, la fede inscalfibile, così come non si celebra il sommo bene, bensì il cuore che batte dove regna la lingua comune, tra spazzature, macerie, “ronzii immersi e imprecisi”, quasi fossimo in una discarica a cielo aperto. I rimandi a Simone Weil e a Flannery O’ Connor conducono la scrittura nella demonizzazione di ciò che è merce, consumismo, futilità generata dal potere del capitale e della società dei consumi. Pier Paolo Pasolini viene ricordato in un bellissimo testo, dove, dopo un ritardo all’aeroporto di Fiumicino, José Tolentino de Mendonça si muove con accortezza, ad Ostia, in una specie di “accampamento desolato”, in un terreno recintato con un cartello che indica il luogo dove è morto il poeta. Al susseguirsi di una ritualità giornaliera fa da contrappeso l’elevazione di qualcosa che appunto non si vede: “La pioggia disegna circoli perfetti / nei pozzi dei contadini / come negli stagni // il fruscio d’argento del fogliame / anticipa il passo dell’angelo, nel buio”. “Torna a noi l’ignoto”, riprendendo un verso, anche nello squillo dei messaggi al telefono, nei fari accesi delle macchine, nei gesti compiuti da chiunque, compulsivamente, in mezzo alla strada. L’anima si interroga nei sentieri dei clandestini, dei fuggiaschi, nei “labili presagi” che trasformano le domande in un grido adiaforo, inascoltato. Eppure la bellezza ci appartiene, ha dichiarato apertamente José Tolentino de Mendonça, come il dialogo interattivo con le culture, il rinnovamento e la consapevolezza delle problematiche mondiali, la testimonianza del tessuto politico nei territori di guerra, la miseria del mondo post capitalistico. È questo un tempo di ascolto “infiltrato” nel pessimismo antropologico e scientifico: il Cristianesimo come arte della speranza, insegna San Paolo. Spes contra spem, in opposizione all’inasprimento dell’insipienza e al disagio emotivo. Lo si evince nei testi del poeta quando lo schema mentale si fa meno rarefatto e più incline a trovare punti d’incontro: “Nessuna morte è lunga quanto la vita / dirà chi per la prima volta / vedrà sotto alberi ombrosi / il posto del mare, la porta delle costellazioni / cento possibili stupori / e nello stupore la speranza”. La seconda parte di Estranei alla terra è più descrittiva e narrata, costellata da punte di liricità. Ci sono cartoline e luoghi cartografati, omaggi a Lisbona vista da una terrazza isolata, a Venezia negli angoli della notte, ai caffè di Bogotà, ai silenzi di Lampedusa, a Itaca con Ulisse che si lascia andare alla deriva, ad Alessandria e a Tebe (città mitiche), o più genericamente alle colline, ai giardini, alle bancarelle, alle stazioni, ai ponti ferroviari, alle case isolate, al lento fluire delle stagioni, al mare delle baie “lisce come il vetro”. I fatti vengono abbinati all’abitabilità dei posti, all’esperienza in un catalogo eterogeneo di oggetti e figure espresso mediante un linguaggio comunicativo, in una percezione mai straniata né programmatica, con memorie discontinue e colloqui frequenti con il passato. Il destino dell’uomo pellegrino è rivisitato nella “parola detta e taciuta”. “Non chiedere mai più il valore di mercato / o il prezzo da attribuire / lascia che l’amore ti renda / uno straniero nel mondo”. La terra, “sconosciuta e perplessa”, rimane un mistero insondabile, non solo estraneo (nessuno può conoscere la totalità degli elementi in campo neppure facendo leva sulla rivelazione dell’arte, sancisce il poeta). Infine il sentimento rilascia il piacere del sorriso, il rasserenamento del “nutrimento luminoso” tra simili che si comprendono nella vicinanza. Il corpo ha un ruolo particolare, insostituibile, e viene più volte richiamato nella compattezza verbale: “Viviamo il corpo, in ciascuno dei suoi poteri / coincidiamo: muoviamo le mani, / sentiamo freddo, vediamo il bianco delle betulle”. Il corpo come uno stato sensibile a tu per tu con sé stessi e nella reversibilità con l’altro. Corpo come appartenenza, speranza, introiezione, transazione, spossessamento, sopravvivenza (Sanguineti, del resto, ammetteva che la poesia è un fenomeno corporeo, fisico). Come a dire che è dal corpo che nasce l’anima coscienziosa, capace di parlare con Dio o addirittura di Dio, sottolinea Zaccuri. Un vero oggettivo non esiste: la poesia di José Tolentino de Mendonça lo dimostra diffusamente nella connotazione esistenziale e meditativa, nelle allusività pervadenti, nel tentativo di conciliazione e di salvezza dell’uomo, di ogni uomo. Dal compimento Calendario perpetuo: “Nessuno specchio ha dimenticato il tuo sguardo / neppure una delle tue suppliche è andata a vuoto / distratto come tutti i vivi non te ne sei neppure accorto / l’ombra stampata sulla terra ha trattenuto le tue domande / ruota lentamente intorno a loro / e dà loro la riposta”.

Alessandro Moscè

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