STEFANO SIMONCELLI: GLI SCOMPARSI BUSSANO ALLA PORTA

Nato nel 1950 a Cesenatico (attualmente vive ad Acquarola, sulle colline di Cesena), negli anni Settanta Stefano Simoncelli è stato fra i fondatori della rivista “Sul Porto” (edita dal 1973 al 1983) al fianco di Ferruccio Benzoni e Walter Valeri (i cosiddetti “fratellini”), dimostrando come l’attività letteraria potesse avere pieno compimento a partire dalla provincia, nonostante l’isolamento geografico. In proposito Benzoni riferì: “La provincia può ancora essere una frontiera dove farsi pionieri di idee e contributi autentici e originali”.
Stazioni remote (2023) è l’antologia personale a cura di Massimo Raffaeli, edita da Marcos y Marcos nella collana “Le ali” diretta da Fabio Pusterla, il quale indica Stefano Simoncelli come il poeta della “parola notturna, vagabonda, eppure tenacemente abbarbicata alla propria verità profonda”. Del resto lo stesso Raffaeli segnala uno spazio franco, una “breve terra di nessuno” dove tornano a stormire le presenze familiari, a partire da Giocavo all’ala, il primo libro compreso nell’opera omnia e dedicato a Ero Bertozzi, la madre. “Allora perché rimango qui, / custode di reliquie, / l’ultima notte dell’anno, / l’ultimo anno del millennio, / a baciarla e carezzarla”. Alla poesia Simoncelli alterna brevi prose poetiche che gli consentono una descrizione più dettagliata dei particolari, quasi sentisse la necessità di informare, di illustrare. La sua è, di fatto, una relazione sommessa, a tratti commovente, che non trascura nulla delle proprietà essenziali dell’uomo, del suo passato remoto e di un ipotetico futuro percepito nella coazione a ripetere. Perché nell’aldilà la vita si svolge esattamente come prima, né più, né meno, sembra suggerire il poeta. In Prove del diluvio Simocelli rammemora episodi dedicati al padre, alla “fragile, trasandata eleganza” di un uomo solitario focalizzato nei pleniluni d’estate e nei lugubri pomeriggi d’inverno. La scomparsa del genitore crea una condizione di spaesamento, la messa a nudo del figlio che costruisce un’apertura comunicativa, il controcanto del presente riavvolto, la difesa della riconoscibilità e la straziante necessità di liberarsi dell’assenza. L’organismo poetico realizza una lingua dialogica che funge anche da dimensione a venire. “Questa notte sono nella casa / dove ha abitato mio padre / e mangio un panino // in piedi con i suoi occhiali da sole / come se viaggiassi in pieno agosto / su un intercity superaffollato”. Residence cielo contiene, in esergo, due citazioni. “Questo trepido vivere nei morti” (Strada di Creva), un verso di Vittorio Sereni, e una poesia di Giorgio Caproni (Condizione) che così si conclude: “Solo in una stanza vuota, / a parlare. Ai morti”. Simoncelli torna in un luogo isolato, in un residence dove trasforma l’ossessione in una rivisitazione, ma con un elemento in più da aggiungere: la malattia, espediente, in uno stato d’incoscienza, per entrare e uscire dal regno dei morti dopo l’ictus che lo ha colpito nel dicembre 2017. Finge di essere ancora assopito per parlare con i cari, per abitare la casa sul porto, una palafitta sospesa tra le alghe e la melma del canale di Cesenatico. Il suo stato d’animo passa dal tormento alla gioia, finché, una volta uscito dal reparto di riabilitazione, si farà più intensa la sintonia con il sogno, con l’aldilà, con il piacere dell’immaginazione per chi non vorrebbe più svegliarsi e coabita con la sua stessa sopravvivenza. “E’ sempre lì, mia madre, nei paraggi, / del campo da tennis dove gioco male / o sulla porta scorrevole del bar”. L’energia del ricordo conforta il dolore fisico, fa da contrappeso alle ombre vaganti dei morti che parlano in continuazione. Qualcosa sfugge alla presa, alla sostanza delle cose, pur mantenendo una sobrietà di fondo, un’ansia generatrice. Simoncelli conserva il respiro della conversazione come necessaria intercessione con gli estinti e con le premurose infermiere e dottoresse. Il suo è un patrimonio di vicende in cui l’energia vivificante proietta un’avventura attraverso la ricostruzione di fatti che si cristallizzano in un tempo stupito. A beneficio degli assenti è una raccolta tutta incentrata sulla malattia e chiude il volume antologico Stazioni remote. Al buio si alterna la luce in un letto d’ospedale con le sponde metalliche che imprigionano il corpo, mentre il poeta è intento ad ascoltare i suoi mugugni come fossero una voce fuori campo. Anche in questi versi lirici e narrativi il racconto sviluppa una spontanea partecipazione e adesione all’intensità dell’esistenza. La tenerezza per sé stessi e l’intesa amorosa con gli assenti, nella sincerità dell’intonazione del verso, si snodano in un codice di naturalezza. “Chi mi stava vicino? / Quale assente tra i tanti / mi dava da mangiare e da bere? // Chi mi faceva da insonne badante? / Chi da infermiere lavandomi / e controllando la flebo?”. Il poeta è apparentemente postumo, un fantasma, un ventriloquo, fermo in un “pietoso lenzuolo funebre”, inabissato nel ricordo che rallenta e velocizza il tempo nella sensazione di trovarsi in un punto di confine. Morto e ridestato, si addormenta e vola accompagnato da un traino celestiale, da una benefica depersonalizzazione. Vede il suo corpo camminare, ma più debole e smarrito, magro, indifeso nelle parole che faticano ad uscire. La lucentezza viene dal passato remoto, dalla ricerca dell’origine fuori da un territorio estremo tra la vita e la morte.
Stefano Simoncelli ha personificato l’amore, come del resto Ferruccio Benzoni, considerando l’ultima frontiera, la morte, sempre in agguato tra apparenze e dissolvenze, tra immagini taumaturgiche e un “esibito intimismo”, come ebbe a dire Enrico Testa sullo stesso Benzoni. E’ senz’altro il nucleo argomentativo della terza generazione ad aver influenzato Simoncelli, innanzitutto nell’estrema comunicabilità della poesia, nell’affermazione di un’identità, nel recupero dell’io, della quotidianità, del parlato, in un’attitudine alla formulazione testamentaria di un tempo onirico che fa da scudo contro l’oblio e il mantra degli addii, nell’andamento colloquiale con la cogente realtà e con i suoi protagonisti assenti, riguadagnati nel campo visivo.

Alessandro Moscè

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