MARIO GIACOMELLI: L’IMMAGINE CHE RESPIRA

The Phair-Photo Art Fair è la fiera dedicata alla fotografia tenutasi dal 5 al 7 maggio di quest’anno al Padiglione 3 di Torino Esposizioni con più di trenta artisti provenienti dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera e dalla Slovacchia: nomi tra i più rinomati nel panorama della nostra contemporaneità. Di rilievo la sezione riservata a Mario Giacomelli (1925-2000), a cura di Chiara Massimello, con un campione di settanta fotografie del maestro di Senigallia (dalla collezione privata di Massimo Prelz Oltramonti).
Giacomelli, di origini contadine e di professione tipografo, dalla riviera marchigiana espresse il suo talento per riprodurre la nettezza primitiva dell’immagine, la dualità bianco/nero, riuscendo a creare una sorta di componimento esistenziale di radice letteraria (una prosa poetica, un micro-racconto dalla trama riflessiva), che immortala il paesaggio naturalistico o urbano e i luoghi privati. Scanno è il paese abruzzese che attirò anche Roland Barthes, immerso in una patina metafisica, surreale (le fotografie furono scattate dal 1957 al 1959 e l’intera serie è stata acquisita dal dipartimento di Fotografia del Moma di New York). Un luogo dove non è arrivato il mutamento della storia e dove l’artista mise a fuoco un sismografo interiore, la memoria silenziosa della comunità tra vecchie mura e personaggi intabarrati, per lo più donne in nero. Tra il 1954 e il 1966 Mario Giacomelli frequentò l’ospizio di Senigallia (dove lavorava la madre) e ispirandosi a Cesare Pavese colse il senso profondo della solitudine, della vecchiaia e della finitudine umana (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), nonché la costrizione claustrofobica degli ambienti, lo struggimento di gesti teneri. Successivamente animò, in modo quasi festoso, i seminaristi (o pretini). In tal caso furono i versi di David Maria Turoldo (Io non ho mani che mi accarezzino il volto) a propagarsi nell’atmosfera sfocata, nel gioco delle palle di neve tra le vesti allargate dei sacerdoti divertiti nel riflesso feriale che rimanda a suggestioni felliniane. La trasfigurazione della realtà è senza più limiti, come fosse visibile in un luogo ineffabile (Sotto la pelle del reale, come recita il titolo di un volume edito da 24 Ore Cultura nel 2001, a cura di Katiuscia Biondi, Marina Itolli e Catia Zucchetti, con un’introduzione di Achille Bonito Oliva). Giacomelli si inoltrò con passo schivo, discreto, dove le cose possono essere adeguate ad un linguaggio personale, ad una variazione della forma, fuori dai parametri consueti. La fotografia diventa quindi interpretazione rigorosa, un terzo occhio illuminato nella compenetrazione di ciò che non si vede nell’immediato, ma che deve essere scovato nella sperimentazione del fenomeno: una sorta di ricomponimento dopo la disgregazione della materia. E’ stato detto che la fotografia di Giacomelli nasce dall’interrelazione, dalla volontà di fermare il tempo e il significante, dalla rivitalizzazione dell’inanimato in un effetto rivelatore. Colpisce soprattutto la distanza della fotografia, la dimensione spaziale, appena percettibile, qualcosa che c’è e non c’è in una profondità indefinita.
In un’intervista degli anni novanta Giacomelli dichiarò: “La fotografia non è il risultato di una cosa meccanica, ma è una cosa tua, proprio perché continua. Il mezzo meccanico blocca, ferma e basta, ma occorre capire che una volta scattato, non si è fatto nulla: l’orgasmo vero lo si ha dal momento che si sceglie l’immagine e la cosa prende vita da quel momento, comincia a respirare, e se non la si vuol far morire bisogna svilupparla in una determinata maniera, poi bisogna stampare, correggere, modificare, per tenerla in vita. E anche quando tutto sembra finito, non è finito proprio niente, perché solo con l’accostarla in una certa maniera, tutto quello che si è fatto prima è annullato per rivivere un’altra stagione”. E’ evidente che l’opera di Giacomelli non assume mai i connotati di un’intuizione febbrile e occasionale, ma di un lavoro lento, artigianale, perché lo scenario si faccia magicamente imprevedibile nei suoi passaggi, nella scansione che conduce al termine dell’elaborato tecnico. Un impegno simile non solo a quello dei letterati, ma degli stessi incisori alle prese con la lastra in acido, la puntasecca, le morsure per ottenere gli effetti chiaroscurali.
Le fotografie di Giacomelli, molto amate anche dal grande pubblico, fanno parte delle collezioni dei più importanti musei internazionali. L’artista, nella sua lunga attività, ha esposto a Losanna, Londra, Parigi, Monaco, Mosca, Tolosa, San Francisco, Boston, Washington, New York, Seoul, Tokio.

Alessandro Moscè

 

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