LA SOLITUDINE E’ UN’EPIDEMIA

Scriveva la poetessa Alda Merini che “ci sono momenti di solitudine che cadono all’improvviso come una maledizione, nel bel mezzo di una giornata. Sono i momenti in cui l’anima non vibra più”. Negli Stati Uniti la solitudine è considerata un problema sanitario e ha sollevato l’interesse della politica, non solo dei sociologi e dei mass media.  In un’apposita relazione è stato detto che circa la metà degli americani adulti va incontro a questa condizione. Negli ultimi sessant’anni i nuclei familiari composti da una persona sono quasi raddoppiati e il Covid ha amplificato un sentimento comune. La solitudine è un’epidemia pubblica nell’abisso esistenziale che colpisce proprio come qualunque altra malattia. La presa d’atto (di coscienza, verrebbe da dire) pone sul piatto della bilancia alcune conseguenze. L’uomo non può considerarsi un soggetto capace sempre di autodeterminarsi. La sfera degli affetti e della vita relazionale è un caposaldo al quale non si può rinunciare: andrebbe rivendicata come il diritto al lavoro per dare dignità alla persona. D’altro canto la solitudine è intensificata da un meccanismo indotto in una società sempre più competitiva e arrogante, seppure la crisi economica e occupazionale abbia creato una categoria omogenea di nuove povertà che fanno capo alle generazioni nate per lo più nel nuovo secolo. E’ cambiato il modo di comunicare, che attraverso i social si fa impersonale, asettico, ma imperante. Si parla stando muti e capita che l’interlocutore sia un perfetto sconosciuto, tanto che nascono amori virtuali, fittizi, immaginari. La solitudine è un problema del corpo, non solo della mente e dell’anima. Costringe a vivere in uno spazio ristretto, in una bolla di simulazione, nell’eventualità, spesso nell’irrealtà. Tutto si fa transitorio, privo di basi solide. L’appello lanciato negli Stati Uniti, però, non comporterà lo stanziamento di finanziamenti per far fronte all’emergenza. Eppure di solitudine si muore, come di fumo. Il rischio aumenta del 30% per la risposta sul piano fisiologico e immunitario: si è esposti ad un rischio maggiore di sviluppare infezioni e condizioni patologiche. L’emotività fiacca, logora, senza che ci si renda conto del male insinuato subdolamente nell’individuo di ogni età, maschio o femmina. Viene da chiedersi come misurare il dolore, come soppesarlo. Come distinguere la malinconia dalla solitudine, il male latente, depressivo, da una situazione reattiva, provvisoria? Il rischio è di non riuscire più a decifrare il proprio vissuto, di non soppesare chi siamo nell’incapacità di manifestarsi faccia a faccia. La solitudine induce a non dominare il tempo, a non programmarlo, a non avere obiettivi. E’ una sorta di resa, di inerzia senza scadenza. Cadono anche gli ultimi avamposti di stretta vicinanza, se si considera l’odio e il rancore che serpeggiano nelle famiglie, così come lo scadimento di vari settori pubblici e privati, tra i quali la scuola. La stessa folla è sola nel gran chiasso, nelle grida, nel tentativo di sopraffare la voce degli altri. Il termine fratellanza è uscito dal vocabolario, disconosciuto nella conquista dell’immagine, da ogni impressione fantomatica, dal rapporto con i fatti della vita esterna. La solitudine proviene da un mondo di incubi e di silenzi, dove niente è interpretato e rielaborato, ma tutto viene patito alla radice da una fatalità crudele. Come sconfiggere questa epidemia che agisce indisturbata? Come dare conforto all’altro? Come imparare l’amore e curare i sentimenti? Come tornare solidali, senza fingere, in un’epoca dove le identificazioni collettive non esistono più?

Alessandro Moscè

 

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