MILO DE ANGELIS: LA PAROLA DATA E RICEVUTA

Milo De Angelis, uno dei poeti più rappresentativi degli ultimi cinquant’anni, il 28 giugno è stato ospite a Fabriano, presso il Museo della Carta, nell’ambito del Festival internazionale “La Punta della Lingua” (itinerante nella provincia marchigiana), diretto da Luigi Socci e Valerio Cuccaroni. Ho presentato De Angelis, del quale ricordavo l’assidua lettura del suo libro capitale, l’esordiale Somiglianze (Guanda, 1976), in cui viene recuperata la dimensione figurativa e una poesia integrale, volutamente scissa nella diade vita/morte. Eravamo in un’epoca di forti scontri tra l’eredità lasciata dal Grande Stile e le fredde istanze dell’avanguardia. Una poesia senza mezze misure, come del resto si confermò soprattutto nell’altra raccolta di primissimo piano, Biografia sommaria (Mondadori, 1999), imperniata sull’orizzontalità della vita, sull’epifania (visione e sogno), sulla realtà che c’è e che non vediamo, sulla perfezione di un istante, sui miti del passato, sulla città urbana e periferica, nebbiosa, illuminata dai fari delle auto e dalle vetrine. Il “pendio della memoria” ridà saldezza alle fotografie augurali, alle corse infantili, ad azioni che si accavallano, addolcendo però lo stato d’animo che le genera e il sapore di alcuni versi tra i più riusciti. Le considerazioni e le apprensioni sul tempo vibrano squillanti (“Vita che è solo vita / e non ci lascia prima di comprendere / e batte sui segnatempo, sull’inverno / intuito dalla scorsa mente. I camion / restano lì, spirituali. Ora una città / ci aziona il respiro”). I camion spirituali sono la dimostrazione di un silenzio che chiama le cose, di occhi che cercano frontalmente di fermare l’istante.
Nell’opera di Milo De Angelis si avverte l’influsso dei grandi milanesi del passato, in particolare Clemente Rebora, Vittorio Sereni e Giovanni Raboni. Colpisce la nettezza della lingua riversata nel contatto con l’altro, nell’incontro con i reietti (De Angelis ha lavorato per decenni in un carcere di massima sicurezza come insegnante). Gli incontri, appunto, che non sono necessariamente salvifici ma portatori di una verità, che può essere anche di morte. Nella raccolta
Incontri e agguati (Mondadori, 2015) percepiamo la dimostrazione di una poetica che fa i conti con la finitudine umana: i versi si addentrano nella drammaticità dell’uomo, nelle sue ombre, nelle sue ossessioni, nell’esperienza comune al limite dell’inaudito. Milo De Angelis ha detto spesso che gli interessa l’accadere più che l’essere, l’intreccio dei tempi sospesi tra passato, presente e futuro anteriore, in cui ogni soggetto si specchia e si vede nelle sue trasformazioni anche fisiche. Stessi temi che appaiono nell’ultima opera Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021): De Angelis non dà giudizi ma si affida alla parola data e ricevuta. La poesia ci mostra ciò che vogliamo, che aspettiamo, che è nascosto in una sorta di camera oscura e che viene infine svelato, tanto da trarne un’esperienza storica e assoluta. La poesia è bisogno, soccorso, ascolto. E’ una forza segreta non evasiva, in emergenza. “Una convocazione perentoria, un incanto nel respiro dei versi, un luogo di costruzione tradizionale, rivoluzionario e mortale”, ha riferito il poeta al pubblico di Fabriano.
De Angelis è anche uno straordinario traduttore dal greco e dal latino.
De rerum natura di Lucrezio (Mondadori, 2022) ci fa capire la grande assonanza con l’autore vissuto un secolo prima di Cristo, come Cicerone e Orazio. Specie nel primo libro tradotto (e interpretato) da De Angelis, emerge la lezione tassativa sulla mortalità del corpo e dell’anima. Nessun Dio potrà intervenire a salvarci e rimarremo distanti dalla verità delle cose ultime. La natura non sa nulla del nostro dolore e non conosceremo ciò Lucrezio definisce il principio primo, invisibile, impenetrabile. Siamo vulnerabili, spesso privi di compassione.

Alessandro Moscè

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