I MÅNESKIN, VICTORIA E NABOKOV

Giorni fa un noto e attempato poeta italiano mi ha riferito che avrebbe intervistato il gruppo dei Måneskin per una rivista specializzata. Elogiava questa band nata quasi per caso e che sta ottenendo successo in tutto il mondo. Sul piano qualitativo sono riconosciuti dai più come musicisti bravi, originali. Ho provato a capire quale fosse la ragione dell’entusiasmo che i Måneskin suscitano tra i giovanissimi, al punto di aver venduto quaranta milioni di copie, tra album e singoli, in appena sette anni. Li ho ascoltati, mi piacciono. Vibrano, palpitano, hanno buoni arrangiamenti. I Måneskin sono scenografici, decisamente sopra le righe, poco romani non solo per la propensione al genere hard rock o rock alternativo (ricordano i dark e i punk degli anni ottanta), ma specie per la loro eccentricità fisica e stilistica. Efebici, dalla bellezza maschile ambigua, fluida, esaltata dal trucco con la matita sbavata e l’ombretto blu petrolio, i riflessi metallici, una lacrima luminescente, il rossetto e lo smalto nero delle unghie: insomma un trend da travestitismo femminilizzato al quale aggiungere foulard stretti, camicie di raso con merli e corsetti, canotte trasparenti, giacche damascate, salopette multicolori, tute in chiffon, stivali con il tacco alto. Un make-up sfaccettato spinto nella sensualità e che nell’Italia dei palcoscenici e dei concerti dal vivo non avevamo mai visto prima. I Måneskin sono da guardare, prima che da ascoltare, dunque televenditori nella festa dell’impertinenza che però non è mai insolente, se li si ascolta quando cantano e quando parlano. Sono figli del loro tempo, delle relazioni disomogenee capaci di tramutare l’agire decostruendo i ruoli maschili e femminili, i confini della sessualità. Ciononostante la forza trainante del gruppo non sono gli uomini,  la voce Damiano e i due ragazzi altrettanto bizzarri, Thomas (alla chitarra) ed Ethan (alla batteria), ma è Victoria De Angelis, la bassista. Ha 22 anni, è alta 1.63 cm, di origini danesi. Dicono che sia piuttosto abile nelle sue performance allo strumento (che non saprei giudicare). E’ lei che ha dato al gruppo la carica internazionale, che ha scelto il nome (Måneskin, che in danese significa “chiaro di luna”). E’ lei che ha fondato, di fatto, la band insistendo su un’organizzazione sistematica. Abbiamo detto che il gruppo è “più vista che orecchio”, più intrattenimento che esecuzione, seppure Victoria De Angelis rappresenti la trasgressione moderata, in fondo tradizionale. Negli occhi, nelle fattezze da Lolita che Vladimir Nabokov le avrebbe senz’altro riconosciuto. Una ragazza come tante altre, carina, non eccezionale, con le sue imperfezioni che non nasconde, infantile, che ride spesso senza senso. Un po’ incantatrice e un po’ preda. Ingenua e spregiudicata, non ribelle. Victoria è la ragazza della porta accanto, che cambia il taglio di capelli e si immerge giocosamente nel suo personaggio. Se non si trucca sembra essersi appena svegliata da una notta brava. Con un’aria stralunata invita alla scabrosità, utilizzando un termine ormai desueto. Le calze rotte a Sanremo, le gambe un po’ tozze, la lingua di fuori. Sembra l’icona della malizia non solo per i suoi coetanei. Un fenomeno, perciò, di lolitismo che non ha nulla di amorale perché Victoria è adulta e perché è pienamente consapevole che la sua fotografia non potrà che essere quella della ninfetta insidiosa. Se non ci fosse Victoria i Måneskin varrebbero la metà. Limpida, più naturale degli altri componenti della band, vanta tre milioni e mezzo di follower. Quale morale potrebbe fermarla? Quale pregiudizio e quale ostilità? Quelli dei perbenisti e degli intellettuali che non sanno nulla di come evolve la società dei ventenni, che non sanno guardare ad altro che a ciò che li vede protagonisti del loro piccolo spazio? Chi disapprova i Måneskin non ama l’ipervisività cromatica, lo spettacolo e la notorietà, ciò che sfugge ad ogni dimensione ideologica e anacronistica. Va ammesso che il presente della realtà espresso con la musica che domina la scena, è un segmento mediatico di questo secolo come lo era del secondo Novecento, forse lo spaccato migliore. Non dimentichiamo che la musica rock esprime una componente popolare della nostra arte, il modo più diretto per manifestare l’anticonformismo, un andamento politicamente scorretto, contrario ad ogni omologazione. Il rock deve resistere, a dispetto di chi lo vorrebbe morto. I Måneskin stanno facendo sé stessi e funzionano. Non si danno compiti e sono animati da un principio energetico, audace. A dispetto di quanto sostiene un grande violinista come Uto Ughi per cui sarebbero un insulto alla cultura. Ma forse Ughi, più semplicemente, disdegna il rock, il punk e il metal. O tutto ciò che con esuberanza appare e impera. Ci auguriamo che il fenomeno Måneskin non diventi, e sarebbe miserevole, un conflitto tra generazioni.

Alessandro Moscè

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