SINISA MIHAJLOVIC: CAMPIONE CORAGGIOSO E SENZA GARBO

Si sa: il calcio è la metafora della lotta per la sopravvivenza, dove qualcuno ce la fa e qualcun altro soccombe. E’ anche un ritorno all’infanzia: una trepidazione e un incantesimo domenicali. Negli stadi esistono i guerrieri come nelle arene, negli spettacoli gladiatori dell’impero romano. Un interprete solenne è stato Sinisa Mihajlovic, di cui adesso non si nasconde nulla, soprattutto che non poteva guarire. Lo sapevo da quando il 13 luglio del 2019, con la consueta temerarietà, annunciò di essere malato di leucemia mieloide acuta. Era stato messo al corrente che c’erano poche probabilità di scamparla da un male subdolo, impietoso. Mihajlovic non è stato solo un campione, ma un uomo eterodosso, politicamente scorretto, privo di garbo e misura. Uno di quelli con la scorza dura, che non si è mai nascosto, che metteva il pianeta sul tavolo, per dirla con Wallace Stevens. Chi è incapace di togliere la maschera protetto da un’armatura convenzionale, non potrebbe comprendere il suo animo spregiudicato, tanto scomodo quanto sulfureo, capace di parlare con lo stesso impeto che partiva dal suo sinistro. Nessuno ha mai capito quelle traiettorie, neanche i ricercatori del dipartimento di fisica dell’Università di Belgrado che studiarono il fenomeno balistico. “Quando sistemo il pallone al limite dell’area i tifosi esultano e si abbracciano. Sanno già cosa sta per succedere”, diceva.
Il 27 settembre 1998 ero allo stadio di Perugia con mio padre, seduti nella curva riservata ai laziali. “Adesso segna. Quella è la sua mattonella”, esclamai quando venne concessa una punizione appena fuori dell’area di rigore. Sinisa Mihailovic scagliò in rete un fendente beffardo a più di 160 chilometri orari e il portiere Roccati poté solo osservare la perfetta battuta. Abbracciai mio padre che rise come raramente gli succedeva, nascosto sotto uno di quelle coppole tessute a mano che ultimamente indossava proprio Mihajlovic per nascondere l’alopecia. Si alzò un grido assordante, divenuto il mantra liberatorio e identitario dei laziali: “E se tira Sinisa è goal”.
Sinisa Mihailovic ha avuto un’adolescenza durissima: figlio di un serbo e di una croata, durante il conflitto nei Balcani è stato vilipeso specie dalla sinistra parlamentare perché amico di Zeljko Raznatovic, noto come la Tigre Arkan, capo degli ultras della Stella Rossa Belgrado e leader di un gruppo paramilitare responsabile di crimini contro l’umanità. Quando morì assassinato da un poliziotto in congedo, Mihajlovic gli dedicò un necrologio. A Novi Sad, dove vivevano i genitori del calciatore, c’erano due ponti crollati sul Danubio. Per raggiungere la famiglia, il pertinace ventenne, che allora indossava la casacca della Roma, attraversava un territorio martoriato dalle bombe cadute su ospedali, scuole, civili. Mihajlovic accusò rabbiosamente la Nato e gli americani di disinteressarsi di tanta atrocità. “E’ una vergogna. Bambini e animali per anni sono nati con malformazioni genetiche per l’uranio che ci hanno buttato addosso”, dichiarò sprezzante. Difese la Tigre Arkan per aver risparmiato la vita allo zio, il fratello della madre, e per aver protetto la sua famiglia dall’assedio dell’esercito croato-bosniaco. Biasimò “Il Messaggero” quando pubblicarono la foto di un soldato croato al quale avevano sparato in fronte squarciandogli il cranio. In realtà la vittima era un suo amico d’infanzia, un docile, imberbe serbo. In pochi dicono che Mihajlovic stava dalla parte del generale, il comunista Tito, che riuscì a tenere insieme, per decenni, slavi, cattolici, ortodossi e musulmani della rimpianta, ex Jugoslavia. “Con Tito esistevano valori, famiglia, patria, popolo. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava nulla”.
Negli stadi, la domenica, Sinisa Mihajlovic veniva puntualmente insultato al grido di “zingaro di merda” e “fascista alla gogna”. Epiteti simili gli venivano rivolti anche dagli avversari che lo temevano per il suo imprevedibile estro. Nella biografia uscita per le edizioni Solferino nel 2020 (scritta con il giornalista Andrea Di Caro) annotò spavaldamente, citando Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia: “Esistono uomini, ominicchi, mezzi uomini, piglia in culo e quaquaraquà”. Alla frase “non è facile indossare la fascia di capitano a 22 anni”, riferita al calciatore del suo Torino Marco Benassi, rispose: “Non è facile svegliarsi alle quattro e mezza della mattina per andare a lavorare. Questo non è facile”. Molti aneddoti non li dimenticherò. All’allenatore dell’Atalanta Gian Piero Gasperini, che redarguì la panchina del Bologna dopo una protesta arbitrale, replicò: “Se mostri a me quel dito non lo avrai più. Non rompere il cazzo”. Il suo urlo, nei telegiornali, lo sentirono tutti. Fece piacere ai più: Mihajlovic si era temporaneamente ripreso dalla malattia e sembrava tonico, apparentemente guarito, seppure il suo volto fosse cambiato, segnato da una dolce malinconia. Ormai era un protagonista assoluto nell’immaginario pubblico fondato sull’eroicità e sulla resistenza, sulla rivelazione dei sentimenti più intimi. Il “re dei deboli”, fu definito. Mi ricordava l’epica orale dei cantori che omaggiano e non compiangono. Il suo coraggio ha dato coraggio, ha riferito l’ematologa che lo aveva in cura al Sant’Orsola di Bologna. Un condottiero negli stadi, e poi l’icona mediatica dei malati che lo cercavano, che gli scrivevano, che si aggrappavano all’allenatore del Bologna che sfidava la morte con il solito ardore. Scese in campo con pochi globuli bianchi, stremato dai cicli di chemioterapia e da quarantaquattro giorni di ospedale, contro il parere dei medici, irriconoscibile, con una cannula al collo. Il 26 agosto 2019 commosse l’Italia intera e fu un segnale fortissimo, come il suo sforzo di dolore. Poche ore prima di entrare in coma farmacologico ha camminato con la febbre alta all’interno della clinica Paideia di Roma, nei corridoi e nel cortile della struttura. Non si era ancora arreso. “Ho scoperto una parte di me che non conoscevo. Vivo tutto più intensamente”. Erano gli ultimi metri della sua esistenza. Questa morte determina una perdita irrimediabile non solo per gli sportivi che ripudiano le manfrine e l’ipocrisia. La partita di Sinisa Mihajlovic continuerà nel mito, dunque senza un finale: invulnerabile e anticonformista, ovunque il combattente che cavalcava la tigre si trovi.

Alessandro Moscè

 

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