IL REPERTORIO TAGLIENTE DI MAURIZIO CUCCHI

Dove e come viviamo? Quale futuro ci aspetta, ora che siamo abituati perfino a compiere più azioni contemporaneamente, mentre registriamo che il pianeta soffre il cambiamento climatico più del cambiamento degli uomini stessi? La poesia e la storia italiana si intersecano. Basta partire dall’Ottocento canonizzato di Foscolo, Leopardi e Manzoni fino al Novecento di Quasimodo, Ungaretti, Montale, Fortini (con la sua “verifica dei valori”), Pasolini (con il “fascismo” della società dei consumi), tra due secoli fondati fortemente sull’autonomia intellettuale. E’ forse tornato il tempo, indispensabile, della poesia civile, ma non guidato da un pretesto politico fine a se stesso e dalla stretta attualità, bensì dall’intento di passare il presente, con le sue magagne, sotto il controllo di un detector. Ecco allora i versi di un poeta di prima fascia, Maurizio Cucchi, con Nel vasto repertorio tossico (Interlinea, 2022) in cui l’uomo è visto come una “creatura assai robotica”, in una società più inquinata che liquida, distratta, superficiale, confusa, super attiva (questa edizione è stata promossa dal Festival internazionale di poesia civile di Vercelli). Cucchi si muove nel territorio della poesia cosiddetta su richiesta e nelle riflessioni personali, come dichiarato nella breve premessa. I testi sono taglienti, non privi di una provocazione sanguigna che illustra la realtà da una specola comune e non dal punto di vista dell’élite caratterizzata dalla “fiera arroganza del somaro”: “Oggi che i grandi della terra, / i potenti sono assai spesso nani / e balbuzienti, i loro clienti / / lillipuziani esibiscono magliette”. Il mondo civile, come dovrebbe essere? Come dovrebbe indirizzarsi il poeta fuori da ogni impostazione puramente poetica? Cucchi ce lo dice menzionando la bellezza dell’esserci, il senso dell’intimità, stigmatizzando il “varietà di massa”, l’“arroganza incompetente” “di chi ha perduto il più sano contatto / diretto con la normale realtà reale”. Non poteva mancare il mondo dei social, quel pubblico che esiste in forma di “fotoromanzo”. Siamo immersi nell’euforia di una post umanità ridotta a “gregge”, a “sballo”. E’ anche il tempo della prestazione, della competizione, e di converso della paura: “sparito il popolo c’è il populismo. Non c’è sovranità c’è sovranismo”. Scrive Cucchi in uno dei migliori testi: “Nessuno da sempre sa niente / di tutto ma oggi tutti dicono / a vanvera di tutto magari / nel buio di un clic su uno schermo”. L’uomo ignorante quanto partecipe, coinvolto, è sempre più alienato. Il poeta rimarca la manipolazione delle menti, l’equivoco del buon senso. “Torni allora la critica, / torni il bastian contrario, / torni il pensiero molteplice e aperto / contro il pensiero passivo di massa”. La poesia civile è di chi rimarca l’analfabetismo didattico che spesso si associa alla rete planetaria in un “antico usmare”, tanto che Maurizio Cucchi definisce il territorio tossico, ogni territorio. Il suo è un libro di denuncia, ma di chi non tira i remi in barca. Il pensiero si riversa in una parola simultanea dalla quale si delinea un malessere inquietante, un virus sotterraneo: “Mi aggiro, tranquillo come sempre, / nelle vie pacifiche, dove ogni tanto, / si scorge l’allarme di una maschera / e il tram, ora di punta, è quasi vuoto. / Colgo qua  là discorsi, ma è strano, / tutti uguali, in un coro / di contagi sparsi”.

Alessandro Moscè

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