I GIARDINI DELLE TRE ETA’

Racconto estivo

Niente vacanzieri e apertivi all’aperto, né colli dell’infinito tra torri e campanili, ma un’oasi di pace per tutte le stagioni. I giardini Regina Margherita di Fabriano, sospesi tra le parole di chi imprime i propri passi sull’asfalto sconnesso, sono la carta assorbente della città. Sia perché rappresentavano l’unico polmone verde all’interno dell’area urbana quando ancora non esisteva il Parco Unità d’Italia, sia perché ai giardini si legano i ricordi di tutte le generazioni: le tre età, come nella rivisitazione al femminile dell’opera di Gustav Klimt.
Durante un’anonima mattinata di agosto i merli svolazzano e non trovano quiete. La loro frenesia anticipa un imminente acquazzone indicato dalle previsioni meteo. Il cielo è bluastro, più basso, e la luce solare si è dispersa nella caligine e nella brezza di terra. I giardini sono anche una sorta di hortus conclusus di derivazione medievale, come nell’espressione del Cantico dei Cantici, custode dei pensieri segreti e dell’evasione giovanile.
Nei punti cardinali di quando eravamo ragazzini, il lato a nord, come ci piaceva definirlo, costeggia i parcheggi nel quartiere del Piano. Da sempre, qui, ci sono le altalene e gli scivoli, i giochi per bambini, ma qualcuno si lamenta perché lo spazio per i più piccoli è diminuito e chiede che siano inseriti cavallucci, dondoli, torrette, casette con porte e finestre per il divertimento dei figli. Questo versante rimane assegnato all’infanzia, dove al riparo del traffico urbano i fabrianesi hanno imparato a camminare, a correre, a pattinare, ad andare in bicicletta.
Nei giorni di ferie alcuni alberi secolari sono stati transennati, potati e abbattuti, se secchi o pericolanti. Anche la vegetazione soffre l’età, il passare degli anni. Eppure un olmo campestre può rappresentare molto per una persona: un amico muto, pronto ad accoglierci, utile quando si gioca con il pallone perché segna uno dei pali della porta per l’attaccante involato sulla fascia. O perché da quell’albero è caduto un verzellino dopo un violento temporale e lo abbiamo salvato nutrendolo con la farina di polenta. Le epoche cambiano le abitudini: a maggio di quest’anno, ai giardini, sono stati immortalati i cinghiali che rovistavano dopo aver divelto un cestino di rifiuti. Più volte gli equipaggi della squadra volante del commissariato, durante il controllo del territorio, hanno intercettato individui assuntori di sostanze stupefacenti. Intanto un consigliere comunale di minoranza chiede che venga bandito il fumo nelle aree verdi per salvaguardare la salute pubblica.
Il vialetto interno, durante le primavere degli anni Settanta, era attraversato da un trenino dove i bambini salivano gioiosamente. Fermo un uomo della mia età che conosco e gli chiedo se è mai salito sulla locomotiva e sui vagoni con il conducente che suonava il clacson per farsi largo. “Come no. Mi pare che il trenino fosse rosso e bianco. Ci faceva sembrare Pinocchio e Lucignolo. Sfuggivamo agli sguardi preoccupati delle madri”, sorride. Dice che gli spazzini tenevano il giardino più pulito di adesso. Erano vestiti di grigio, muniti di un carretto e invitavano i cittadini a non lasciare le cartacce dappertutto. Le foglie venivano inforcate dalle scope di bambù come quelle su cui, nei fumetti di Carl Barks per la Disney, volava la strega Amelia che voleva derubare Paperon de’ Paperoni.
Scatto una foto e l’amico ritrovato mi saluta. Deve fare una commissione prima della partenza per il mare. Arrivo all’altezza della piscina, finalmente pulita, dove tra le panchine di marmo, nascoste sotto i fusti degli alberi, si apre una circonferenza che racchiude l’area degli amori adolescenziali, dei primi baci, delle coppie clandestine in età scolare. Ultimamente è stato anche lo spazio dell’ornamento con creazioni all’uncinetto e manufatti di filato che hanno rivestito i tronchi. D’estate, con il caldo torrido, gli studenti che preparano gli esami universitari vengono a ripassare nei pressi della piscina approfittando dei coni d’ombra proiettati dagli ippocastani.
Vedo un ragazzo con un libro in mano e lo avvicino. “E’ un’intervista? Sto tentando i quiz per la patente. Trenta domande e una sola risposta. Vero o falso. Ne puoi sbagliare tre, non di più”. “Studi o lavori?”. “Non so ancora se mi iscriverò all’università. Non studio né lavoro. A Fabriano non ci sono sbocchi, la città è morta. Mi piacerebbe fare un’esperienza all’estero”. “Del tipo?”. “Il cuoco in un ristorante. E’ il mestiere più bello del mondo. Andrei alle Canarie, a Tenerife, dove l’Iva è al 7%. Si spende poco, si mangia benissimo e c’è un gran flusso turistico. Una vera figata”.
Sempre secondo il linguaggio dei ragazzi cresciuti negli anni Ottanta proseguo la camminata verso la costa a sud, dove un paio di vecchie panchine di ferro sono state pitturate di rosso per stigmatizzare la violenza sulle donne e la discriminazione di genere. Sono ancora appannaggio delle persone più anziane che leggono il giornale e chiacchierano tra loro. Approfitto della presenza di Marcello e Mario, ottantenni che si fanno le corna e ridacchiano. Uno è interista e l’altro juventino. “Ogni anno scommettiamo su chi vincerà il campionato. Chi perde paga un pranzo. E’ da tre anni che sbagliamo il pronostico”. I due mi fanno notare che la mancanza di irrigazione per la scarsità d’acqua ha reso i prati secchi, del colore della paglia. “Lo scriva, lo scriva”. Dicono che la politica non è più una cosa seria e che non andranno a votare neanche turandosi il naso.
Davanti ai miei occhi lo chalet è ricoperto da un’intelaiatura nera che impedisce di scorgere l’interno. La struttura di stile orientale è stata costruita durante il ventennio. Il 23 e il 24 giugno si è consumata una maxi rissa con tanto di lancio di sedie e tavolini. Il questore ha disposto a scopo cautelativo la chiusura del locale per venti giorni. Allo chalet la mia generazione si sfidava a colpi di biliardino e con le racchette di legno sui tavolini da ping pong. Andavano di moda i ghiaccioli al limone con lo stecco di liquirizia. Un solo juxebox riproduceva i 45 giri più in voga inserendo una moneta da cinquanta lire. Gli anni Ottanta sembrano lontani un secolo, eppure anche allora c’era un’esplosione di baldanza, ma più educazione. Non si andava al di là dello sfottò.
Arrivo all’altezza del Monumento ai Caduti dove ogni 25 aprile le forze dell’ordine e il sindaco depongono le corone di alloro. Mi hanno detto che per molti anni un ex partigiano lo spolverava tutte le sere, specie la formella che raffigura Mastro Marino nella stele che rappresenta la vittoria. Si fermava a pregare, si inchinava. Solo adesso, leggendo l’epigrafe, apprendo che durante la Grande Guerra morirono ben 490 fabrianesi, mentre furono 296 i caduti nel secondo conflitto mondiale.
Di notte i giardini sono macchiati dalle scie arancio dei lampioni e dei fari. Tra luci e penombre chiunque sembra muoversi furtivamente e uscire da un insondabile universo. Un gruppo di teenager tatuati, in pantaloncini corti, canta un motivo di Vasco Rossi e si sposta con le bottiglie di birra in mano. Due di loro inneggiano alla vita e guidano gli altri nell’intonazione del testo: “Non lasciarmi andar via / non lasciare che sia / una stupida storia / una notte ubriaca / una sola bugia…”.

Alessandro Moscè

Tags from the story
,
0 replies on “I GIARDINI DELLE TRE ETA’”