La cronaca ci offre spesso l’occasione per capire l’evoluzione della società e anche del male. Sì, perché il male ha più risvolti inaspettati che si evidenziano nelle modalità con cui emerge all’improvviso nella stessa provincia italiana. Veniamo al dunque: un uomo di Treviso voleva sbarazzarsi a tutti i costi del rivale in amore per conquistare la donna di cui era segretamente innamorato ed è arrivato a ordinare l’uccisione del fidanzato di lei effettuando pagamenti in criptovaluta, approfittando dell’anonimato garantito dal dark web, la parte oscura della rete. Si era rivolto all’amministratore di un sito specializzato in omicidi su commissione. E’ stato infine scovato e denunciato per minacce aggravate. Lo abbiamo detto in precedenti interventi: ciò che comunemente definiamo follia si annida dove non si vede. Mario Tobino, scrittore e psichiatra, diceva che i manicomi non erano luoghi di detenzione, ma di protezione. Si schierò contro la legge Basaglia perché la sua esperienza gli insegnava che i matti esistono e hanno atteggiamenti pericolosi. Matti, che oggi chiamiamo soggetti malvagi, scellerati. Il delirio paranoico di morte è subdolo quanto una passione amorosa e un sentimento di bene. L’esempio di Treviso ci indica che il male non è percettibile ad occhio nudo, tanto che proprio Tobino affermava, nel romanzo Le libere donne di Magliano (Vallecchi 1953), che “la pazzia è come le termiti che si sono impadronite di un trave. Vi si poggia un piede e tutto frana. Follia maledetta, misteriosa natura”. Del resto il rischio di uniformare il male è una facile tentazione, se solo si pensa, come riferisco nel mio ultimo romanzo Le case dai tetti rossi edito da Fandango, che una volta in manicomio ci finivano le prostitute, i barboni, gli epilettici, i nani. Oggi sarebbe impensabile e molti di quei soggetti sfortunati condurrebbero una vita normale e non avrebbero alcun bisogno di terapie e sedativi. Resta sempre complesso capire quando un uomo è pericoloso per sé, quando potrebbe compiere un gesto insensato a danno degli altri. La coscienza, così come la cattiveria, rimangono connotati vaghi, irriconoscibili. Possiamo dare un’immagine di rispettabilità, godere di una buona reputazione e nascondere angoli bui, travagliati. “Alcuni raggiungono la massima cattiveria nel silenzio”, sosteneva Albert Camus. Gli invisibili non sono solo i poveri, i marginalizzati, ma anche gli scontenti, i frustrati. Coloro che bramano il denaro come fosse l’unica risorsa a disposizione, l’unico obiettivo per raggiungere la felicità. Non sappiamo mai chi è il vicino di casa, l’amico di sempre, il negoziante dal quale ci forniamo. La cronaca nera aumenta come gli assassinii, gli stupri, gli atti di violenza. Bastano la gelosia e l’invidia per scatenare la follia omicida, come la paura di perdere una posizione di rendita. Non serve l’intelligenza e nemmeno l’astuzia. Probabilmente proprio perché ci si accorge che il malvagio si annida ovunque, gli italiani si sono affezionati ad un unico genere letterario: il giallo, il noir. Se non c’è il morto ammazzato misteriosamente, uno come tanti, i libri vengono accantonati. L’impressione è che la cronaca (complici i format televisivi) venga in soccorso della narrativa, e non il contrario. Non c’è programma di intrattenimento che non si occupi dei casi spinosi come quello di Treviso, giorno dopo giorno, fino alla morbosità. La ferocia del mondo attrae lo spettatore e il lettore più dei buoni sentimenti delle sitcom. Il coltello e la pistola piacciono come le parole più affilate, mortifere. L’elemento mostruoso dell’uomo, evidentemente, è il più interessante.
Alessandro Moscè