IL PADRINO PINO WILSON

Ditemi voi se avete mai letto, in un romanzo d’avventura, di una squadra di calcio appena promossa dalla serie B, che perde il campionato all’ultimo minuto dell’ultima giornata, ma lo vince l’anno successivo lasciando tutti a bocca aperta per il gioco piratesco che assomiglia a quello dell’Olanda, la micidiale Arancia Meccanica. I tempi dell’euforia, però, durano poco. Neanche nelle pagine di Joseph Conrad e nel suo Cuore di tenebra si apprende della salita in cielo e del precipitare negli inferi di una realtà umana tanto trepidante. Siamo nel 1974 e Roma è bardata di celeste. Il mentore della Lazio è il suo allenatore, un ex partigiano che ha combattuto sul fronte dei Balcani contro i nazisti: Tommaso Maestrelli, il pater familias, vittima di un male crudele pochi mesi dopo il trionfo, ma che fa in tempo a salvare il suo branco dalla retrocessione nella disgraziata stagione 1975-’76 guidandolo dalla panchina, smagrito, con la febbre. Uno dei suoi figli prediletti, Luciano Re Cecconi, biondo come un vichingo, muore a 28 anni per un colpo di pistola sparato accidentalmente in una gioielleria nel quartiere Fleming; Mario Frustalupi, il regista sapiente, perde la vita in un incidente automobilistico. Il capo di quel gruppo selvaggio si chiama Giorgio Chinaglia, Long John, dal whisky che beve nei ritiri, emigrante di ritorno che manda a quel paese, ai mondiali di Germania, l’allenatore della nazionale reo di averlo sostituito. Anche la sua peripezia esistenziale finisce troppo presto, nell’esilio forzato della Florida. Nell’antologia di Spoon River laziale, domenica scorsa se ne è andato il capitano dalla fascia rossa (invece che bianca) di quella “sporca dozzina”: Giuseppe Wilson, nato a Darlington, figlio di un ufficiale inglese di stanza a Napoli durante il secondo conflitto mondiale. Laureato in Giurisprudenza, elegante, leggermente strabico, dalla voce roca e dal linguaggio forbito, si diceva che votasse per la destra di Almirante, ma in realtà, negli anni della giovinezza, aveva una venerazione per Belzebù Andreotti. Il venerdì, nel quartier generale di Tor di Quinto, con la Lazio si allenava il figlio del Presidente della Repubblica, Giancarlo Leone. Gli veniva assicurato un trattamento di riguardo. Wilson, agli altri, non lesinava colpi duri perché dalle sue parti non si passava e con il tackle scivolato aveva fermato proprio tutti: Riva, Boninsegna, Anastasi, Mazzola. Erano gli anni di piombo: la sinistra intellettuale odiava la Lazio e Pier Paolo Pasolini parlava di un manipolo di fascisti in cima alla classifica. Il 12 maggio del 1974 Giorgione Chinaglia sbatté alle spalle del portiere del Foggia il rigore che valse uno scudetto. Quella Lazio è tuttora la compagine più anomala, illogica, rissosa di sempre nella storia del calcio italiano. E’ realtà che Pino Wilson, “il padrino” perché comandava, “il baronetto” perché vestiva come i Beatles, con i Ray-Ban, la pelliccia di visone, i pantaloni a zampa d’elefante e gli stivaletti di pelle, avesse il porto d’armi e sparasse al poligono di tiro allestito nella campagna retrostante l’Hotel Americana, sull’Aurelia, sede dei ritiri prima e dopo le gare. E’ realtà che qualcuno di quei bucanieri colpisse le lampadine con i proiettili di una calibro 22 per spegnere la luce prima di addormentarsi. Si sparava anche tra le gambe divaricate dei massaggiatori. Wilson faceva parte del clan di Chinaglia: lui la mente, la diplomazia, l’altro il trascinatore, istintivo e vincente. Il capitano aveva diritto ad una stanza singola, si svegliava presto, scendeva nella hall degli alberghi e sembrava davvero un barone del Sacro Romano Impero che ha potestà di giurisdizione e diritto di guerra. Leggeva Shakespeare e divorava i quotidiani non solo sportivi. Era talmente carismatico che il 28 ottobre 1979 corse da solo, risoluto gladiatore, sotto la curva nord di Aureliano per acquietare 20.000 tifosi. Quella volta il numero 4, con la maglia di lana grezza, funse da confiant e gestì i drammatici momenti di caos seguiti alla morte del tifoso Vincenzo Paparelli, colpito da un razzo esploso dalla curva sud romanista prima del derby. Nello spogliatoio Luigi Martini e Luciano Re Cecconi stavano da una parte, Wilson, Chinaglia, Oddi, Facco e Petrelli dall’altra. Volavano i fondi delle bottiglie e qualche parola di troppo. Maestrelli ammansiva i più esagitati invitandoli a cena. La moglie Lina cucinava il risotto con i piselli e i gemellini Massimo e Maurizio giocavano a subbuteo con i loro idoli, i fratelli maggiori. Quel mucchio selvaggio la domenica era unito, arrembante, irresistibile. Dispensava gioco offensivo e agonismo dissennato, tanto che Gioânn Brera parlò di “eresia podistica”. Il grande antropologo del calcio all’italiana non credeva che la Lazio avrebbe mantenuto quei ritmi forsennati e scommise dieci piatti di risotto ai cunfanon, erbe spontanee che crescono in primavera nei prati sabbiosi della bassa padana. Intanto il plenipotenziario Gianni Agnelli, da Villar Perosa, fece sapere che per il bene della Fiat non intendeva affatto perdere lo scudetto: tutto è merchandising, anche i successi della Juventus che aiutavano a vendere la nuova utilitaria, la 126 appena uscita dalla casa madre di Mirafiori. Arrivò il giorno dello scontro con i padroni d’Italia. Nel catino dell’Olimpico, il 17 febbraio 1974, Long John aveva dormito fino a cinque minuti prima di entrare in campo, rannicchiato su una panca, la testa incassata, le spalle più curve che mai, ingobbito. Lo svegliò il dioscuro inglese. Giorgione si caricò e giocò splendidamente. Irrise Morini, Spinosi e Zoff. Era indemoniato, mentre “il padrino” aveva la fierezza di Giulio Cesare e guardava gli avversari in cagnesco. Sradicò la palla dai piedi di João Altafini e gli urlò che gli avrebbe tolto il fiato. Altro che ballo di samba per il brasiliano. 80.000 spettatori gridano: “Wilson Chinaglia Re Cecconi trio di grandi campioni!”. Il coro è assordante e gli spalti di via del Foro Italico tremano. I bianconeri, per tutto il primo tempo, non superano la metà campo travolti dalla furia dei biancocelesti. La Lazio vinse nettamente. A fine gara Wilson dichiarò alla stampa, con tono distaccato, da cattedratico più che da fascio: “Adesso non direte più che è una lazietta”. Wilson aveva una strana humanitas nascosta dal mento prominente e dallo sguardo furbo, di chi era abituato a pensare per ricucire la difesa. Il sismografo della squadra era sempre dipeso da lui. Credeva di essere più bravo del roccioso Burgnich, che gli chiudeva la strada in azzurro. Non sopportava il dialetto milanese e le squadre del nord: praticamente tutto il gotha del Belpaese. Qualcuno di quel gruppo importuno, mi ha riferito che “il padrino” voleva telefonare a Boniperti e ad Agnelli, una volta sfoggiato il tricolore sul petto. Chinaglia, ovviamente, sarebbe stato d’accordo. Dopo la morte di Maestrelli, tutte le domeniche, portò i pasticcini ai figli del suo precettore e non li dimenticò mai. Il sogno fu breve, complice il calcioscommesse del 1980 e la squalifica. Pino Wilson sarà tumulato al cimitero di Prima Porta nella stessa cappella della famiglia di Tommaso Maestrelli dove già riposa Giorgio Chinaglia. Ora è mitologia, quella del “basso epico”, il calcio, caro a Jorge Louis Borges. Ma è anche sentimento lucido di commozione come nel carme foscoliano Dei Sepolcri, che Wilson studiò da baldanzoso liceale. Deorum manium iura sancta sunto.

Alessandro Moscè

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