I SARDONCINI SCOTTADITO DI MARIO LUZI

Avevo salutato Walter Bastari, il pittore senigalliese che di mestiere fa il parcheggiatore e impreca contro le sfortune, specie se è troppo caldo e se i turisti non rispettano gli appositi spazi tra le righe. Un uomo lunare, un espressionista visionario. Per il fotografo Mario Giacomelli Bastari era un soggetto unico, il fantastico che diventa maschera, specchio, dramma e commedia della vita.
La spiaggia di velluto si era mobilitata, alla Rocca Roverasca, per ascoltare il più grande poeta italiano vivente, Mario Luzi. Arrivò da Ascoli Piceno: quieto, sorridente, affondato in un serpaio di rughe che gli segnava il volto. Si informò subito sulla rocca, sull’evoluzione rinascimentale del modello recintato con la torre, a presidio delle principali vie di fondovalle, dei bacini fluviali o del litorale, come accadeva lungo l’Adriatico marchigiano. La Rocca nella sua accezione e forma quattrocentesca, per ragioni di deterrente militare e presidio simbolico degli interessi delle locali signorie, svettava circolarmente. Luzi sembrava un nobiluomo d’altri tempi, con un fuoco dentro non ancora spento, davanti all’imponente architettura a pianta quadrata. Suscitava un grande rispetto, il poeta nominato senatore a vita, ma che molti non avevano mai letto o che avevano visto per la prima volta in televisione dopo una polemica con l’ex ministro Maurizio Gasparri. Più volte candidato al Premio Nobel,  quando parlò della morte apparve sospeso tra il sonno e la veglia. Non aveva paura, come se la fine di tutto fosse solo un esilio, un rimpatrio. Cioè l’inizio di qualcos’altro. Mario Luzi disquisì anche sulla pena di vivere, sull’innocenza dell’uomo contro i soprusi. Rivendicò la necessità di tornare ad una poesia civile. Voleva una società in cui il poeta potesse sentirsi cittadino tra i cittadini, senza riserve. Questa era la vera rivoluzione della letteratura, di qualunque scrittore del Duemila, secondo Mario Luzi. Un compimento, quindi, attraverso la verità delle cose da dire. Quando la sua giacca blu cominciò a muoversi ai lati perché si era alzato il vento, ebbi l’impressione che si assentasse, che cercasse altro rispetto al contatto con gli spettatori della Rocca che erano accorsi per lui. Ho pensato che cercasse il profumo dell’Adriatico, e me ne accertai quando andammo a cena. Al ristorante guardava sempre a sinistra, verso il mare nero che non poteva mostrare il suo orlo, ma che alitava su di lui liberandogli i polmoni. Era un canto della natura, quel soffio marino, accompagnato dai sardoncini scottadito che il poeta apprezzò molto. Chiese come si preparano e il proprietario del locale spiegò il segreto. Anche per un ristoratore Mario Luzi era il maestro. Mi tornò in mente una sua poesia, quel “soffio di prima estate” che vola basso e sfiora le tende, che eccita i capelli. E fissai i suoi pochi ciuffi di lana che si erano alzati incerti sul capo. Gli occhi erano ancora immobili verso sinistra, ma quando gli parlai del garbino, mostrò attenzione. Il garbino è un vento della bassa Lombardia e dell’Emilia Romagna che arriva fino a Senigallia, raccontano i narratori di mare. Le frequenze sono significative in qualsiasi stagione, ma in particolare durante i mesi intermedi, la primavera e l’autunno. Soffia forte nelle ore pomeridiane, con raffiche anche di cinquanta chilometri orari sulle coste. Senigallia si raccoglieva intorno a quell’espressione di velluto, come la sua spiaggia. L’aveva illuminata Mario Luzi, che continuava a mangiare lentamente i sardoncini e nient’altro. Il vento e un’anima, il vento e una voce, ciò che si condensa in poco, come una luce, come quella timida albescenza che tanto piaceva al poeta. C’era un candore e uno stupore, come di ragazzino, nel suo volto sfatto. La corrente del pensiero era fresca, però, nonostante i novant’anni. Si assentava di nuovo, il maestro, con il profilo di capra e la memoria che andava lontana. Ricordai, allora, un verso, tra i più belli: “Siamo qui noi. / Le siamo dentro il cuore. / Ci abita questa ora, / ci colma della sua durata / minuto per minuto / forte, non certo ignara. / E l’abitiamo noi precisi, / come per il guscio la mandorla”.

Alessandro Moscè

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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