SULLA PORTA SOCCHIUSA DI DIO

Con Dio o senza Dio? Cosa ci suggeriscono la filosofia e la letteratura? Un campo sterminato di pensieri che si accavallano, si assomigliano, si incrociano, si oppongono. Ecco alcuni esempi tra i più calzanti. Dalla riproduzione anastatica delle pagine del diario di Flannery O’Connor  (Savannah 1925-Milledgeville 1964) emerge una grazia umile, un sentimento stupito e infranto. Colpisce la fede vissuta come presenza viva, palpitante. Scriveva provocatoriamente: “Chi non conosce tutte le cose non può essere ateo. Solo Dio è ateo. Il diavolo è il più grande credente e ha le sue ragioni”. Nicolás Gómez Dávila (Bogotà 1913-Bogotà 1993) riteneva che “un libro che non abbia Dio o l’assenza di Dio come protagonista clandestino, è privo d’interesse”. Jorge Luis Borges (Buenos Aires 1899-Ginevra 1986) si convinse dell’impossibilità di penetrare il disegno divino, ma era affascinato dal mistero: “Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare”. “Dio è il più grande atto di superbia dell’uomo. Quando egli l’avrà espiato, non ne troverà mai uno più grande”, ha scritto Elias Canetti (Ruse 1905-Zurigo 1994).
La presenza di Dio, la sua mano invisibile o la sua assenza, il precipizio nell’abisso, la morte del corpo. A ancora: la certezza e il dubbio, la fede e l’ateismo, l’aldilà. Da sempre un contrasto esistenziale, culturale, ideologico, antropologico, pone l’uomo di fronte ad un vettore o ad un’incognita. Nella sovraimpressione di più piani temporali, di epoche lontane, di secoli permeati da idee ben radicate, diverse tra loro, la visione illuminista e scientista ha ostacolato, nell’impronta immanente, la convinzione dell’esistenza di ciò che non spieghiamo fenomenologicamente. Su queste basi Roberto Giovanni Timossi (impegnato nel confronto interdisciplinare tra filosofia, teologia e scienza) ha scritto una sorta di regesto dallo stile comunicativo. Una guida per credenti, non credenti a agnostici dal titolo Ipotesi su Dio (EDB 2021). In esergo al libro una frase emblematica di Blaise Pascal (Clermont-Ferrand 1623-Parigi 1662): “Se l’uomo non è fatto per Dio, perché non è felice che in Dio? Se l’uomo è fatto per Dio, perché è così contrario a Dio?”.
Stephen Hawking (Oxford 1942-Cambridge 2018), astrofisico di fama mondiale, sosteneva che se conoscessimo perché l’universo si dà la pena di esistere, conosceremmo Dio. Dal “sentimento creaturale” dello storico delle religioni Rudolf Otto (Peine 1869-Marburg 1937), Timossi passa ad una realtà salvatrice, a un Dio demiurgo, ordinatore, sommo orologiaio. Creazione e/o sostanza del cosmo insomma, un’anima mundi che scopre la divinità artigianale paragonabile a quella di un lavoratore manuale. Nel baratro, viceversa, si situa il “solido nulla” di Giacomo Leopardi, che fa pensare al “soffio del vuoto” riscontrabile nei passi dell’Antico Testamento, nel dimenarsi degli uomini alla ricerca di una verità indiscutibile che nessuno ha mai verificato nel mondo empirico che fa i conti con la coscienza, con la fine della vita ma, forse, non della persona.
Giovanni Timossi, in proposito, ricorre alle parole di Benedetto XVI, che allude ad un “Dio misterioso e non assurdo”, capace di dettare la genesi, la verità di senso. Il Dio eterno è negato da chi pone l’uomo al centro dell’universo contro ogni credenza religiosa e ogni superstizione. L’uomo è tutto per il non credente, nella concezione dell’antropocentrismo moderno, nell’inquadramento del superuomo nietzschiano, in un finalismo che propende per l’esaltazione della natura. Viene concepito il termine apateismo, che indica il vivere senza assili, riponendo nell’indifferenza la domanda ultima, che l’agnostico fa ricadere, invece, nel non prendere una scelta. Il giudizio viene sospeso sul limite invalicabile già individuato dai sofisti greci, per cui riguardo gli dei non siamo in grado di sapere chi siano e dove siano. L’agnostico, in buona parte, si rifà al positivismo, all’universo regolato da un principio evolutivo dove la metafisica rappresenta solo una speculazione, un’indagine inconcludente.
Blaise Pascal, nella sua apertura di credito, parlò di un calcolo ragionato delle possibilità, di una scommessa come nel lancio della moneta. Denis Diderot (Langres 1713-Parigi 1789) affermò che è più importante non confondere il prezzemolo con la cicuta, che decidere sull’esistenza e la non esistenza di Dio. L’ideale regolativo di Immanuel Kant (Königsberg 1724-Königsberg 1804), nella Critica della ragion pura, segna un passaggio decisivo sui limiti della ragione, per cui la metafisica diventa la scienza che va oltre la spiegazione fenomenologica della realtà. Per Bertrand Russell (Trellech 1872-Penrhyndeudraeth 1970) Dio, se ci fosse, sarebbe al di fuori del tempo e dello spazio, mentre l’uomo è solo dentro una dimensione spaziale e temporale. Ludwig Wittgentstein (Vienna 1889-Cambridge 1951) coniò la famosa frase: “Su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere”. Per Karl Barth (Basilea 1886-Basilea 1968) la distanza incolmabile tra l’io e il divino chiuderebbe la porta ad ogni rivelazione.
La volontà di credere viene da una risposta mitologico-religiosa, da una causa esterna alla realtà, dal primo principio, l’inizio assoluto: il motore immobile aristotelico. Tommaso d’Aquino (Roccasecca 1225-Abbazia di Fossanova 1274) individuò lo scopo degli esseri contingenti nell’esistenza ordinata, intelligibile, convergente, calibrata. Elaborò cinque principi per dimostrare la validità dell’ipotesi su Dio: il movimento della terra, il cosmo in evoluzione; la causalità per cui muovere significa trarre qualche cosa dalla potenza in atto; il contingente che comincia ad esistere per qualcosa che è sempre stato; il grado maggiore di perfezione fino ad arrivare alla divinità; l’ordine finalistico del mondo, per cui i corpi fisici sono progettati per una funzione.
Paul Davies (Londra 1946), fisico e saggista vivente, pone una domanda: “L’universo può crearsi da sé?”. Possibile che sia adatto ad ospitare una vita autocosciente per la struttura della materia che la rende causa di sé stessa mediante un’espansione inarrestabile? Come si spiega la formazione di organismi viventi a partire dalla materia non vivente? Chi ha fatto la “prima mossa?”. Il caso, la necessità, la cieca natura, o un’azione divina riscontrabile solo nella teologia filosofica?

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Addentrandoci in una concezione da credente, constatiamo che l’uomo di fede si astrae da ogni rappresentazione fisica. La maestosità della Divina Commedia ci mostra l’ineffabile mistero di Dio e dell’amore, la sete di infinito dei cuori, come suggerisce Papa Francesco nella lettera apostolica Candor Lucis aeternae. Nell’aldilà i mortali sono in uno stato di miseria o di beatitudine, eppure immersi nella grazia divina. Eternità e tempo si incontrano in un pensiero teologico che abbraccia bontà e bellezza. Dall’oltretomba alla presenza di Dio il passo è breve, per l’esule e pellegrino Dante Alighieri (Firenze 1265-Ravenna 1321). Il poeta è il profeta della luce eterna e ci suggerisce che Dio ha un volto umano, misericordioso. Chi lo segue oltrepassa la “selva oscura”. La meta ultima è dunque la libertà, mai l’imposizione.
Nella nostra contemporaneità David Maria Turoldo (Coderno 1913-Milano 1992), sacerdote, teologo e poeta, nel libro Anche Dio è infelice (Piemme 1991) ci dice che Dio è connaturato ad un elemento strettamente umano: è la verità senza ragione, l’illimitato, il tutto e il niente, l’immaginabile. Turoldo, voce inquieta della Chiesa, da disturbatore delle coscienze, parlava alle masse. Anche Dio è infelice: perché questo titolo? Perché l’uomo si priva del valore misericordia (parola tanto cara a Papa Francesco). Viene stigmatizzato l’atteggiamento di colui che Turoldo chiama levita, come nell’Antico Testamento: cioè il ministro del tempio. Da servitore del popolo che soccorre i poveri, immune dalle cupidigie, il levita è una figura autoreferenziale. Non più espressione di umanità, ma un io chiuso in sé, vanitoso e cinico. Le lacrime di Dio sembrano andare di pari passo con il silenzio, con la teologia apofatica. Fu silenziosa la creazione, la presenza di Cristo nei Vangeli, quella della Madonna, di Giuseppe. Un silenzio dietro cui, però, parlano le parabole, le riflessioni. Quel silenzio oggi introvabile: tutti parlano, urlano, vogliono imporsi. Sono coloro che Turoldo chiama “infaticabili tessitori delle ragnatele”. La buona novella è ancora offerta con discrezione. Discrezione, già: una parola annullata dal nostro vocabolario. Le strade sono l’arteria della salvezza, continua Turoldo, ma saremo mai in grado di capire Dio, si chiede? “Tu dovevi essere felice / e poi perduto. / Così sei venuto a cercare / i cibi delle Tue creature maledette, / a farti / carne di peccato, mentre Ti donavi”. Il poeta si rivolge direttamente a Dio, a Colui che non vede. Il suo Dio è appassionato. Canta la vita, ma scorge l’infelicità di Dio nell’l’incompiutezza dell’uomo. Canta l’universo specie quando si rivolge alla madre: “Ho lasciato i nostri campi, mamma, / quella pianura vasta e taciturna / dal colore dei tuoi capelli / biondo come le vigne d’autunno”. Il prete dà del tu all’ateo, all’uomo che non conosce: dialoga, ammonisce, invita, ascolta, perdona.

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Spesso si legge di una società di rivali senza scrupoli, di terribili egocentrici, di gente che lotta solo per un tornaconto personale. Papa Francesco, di recente, ha invitato ad abbandonare ogni spinta verso la vanagloria da parte di chi usa i guanti bianchi e si lascia andare ad un modus vivendi multifattoriale, ad una disforia che inaridisce l’io, che lo annienta.
Il narratore francese Philippe Forest, perfetto cultore dell’apateismo, scrive sul malessere e sull’eclissi umana, sulla voragine priva di luce che si apre nel limite estremo dove tutto precipita, non solo il protagonista di Tutti i bambini tranne uno (Alet 2005). Sono i temi addipanati in una malattia spirituale contagiosa che diffonde un sintomo sinistro, bieco, un canto silenzioso. Sintomo per il quale non esiste diagnosi, né cura medica. Piena (Fandango 2018) riprende di nuovo l’assolutezza dell’incubo di Philippe Forest. Viviamo nel regno dei finali drammatici: occorre accettare l’esperienza del dolore per toccare il senso vero della gioia e dell’amore, quando non si hanno più ambizioni e desideri? Forest è razionale e sensoriale. Razionale quando descrive il dato tangibile dal quale parte, sensoriale nell’intuizione soggettiva, interiore. In questo libro vivere in un quartiere periferico e quasi del tutto abbandonato, combacia con il credere, nel ritrovamento delle proprie radici perdute nella città di una volta. Invece tornare vuol dire esiliarsi, specie se un fiume straripa con veemenza e riempie le strade. Il posto è soggetto ad una strana forza gravitazionale che inghiotte sempre più giù i malcapitati, misere espressioni di un mondo angosciato da venditori di droga, prostitute, protettori. L’esistenza procede monotona come quella dei sudici piccioni, vittime dell’epidemia, del batterio del tempo sospeso nello sconquasso, prima di mettere piede nel terreno dei vinti senza la forza di cogliere un’altra occasione. “Da quando mia figlia era morta, vivevo nel vago. Non riuscivo a fissare la mia attenzione sui fatti e le cose che compongono la materia di ogni esistenza. La mia stessa vita mi appariva come quella di un altro che l’avesse vissuta al mio posto, qualcuno con cui intrattenevo rapporti decisamente sporadici”. L’io narrante è segregato. Ma il torpore e la dissolvenza, cosa resuscitano se non conducono direttamente alla morte? Un caos simultaneo e un presente ostile, un’usurpazione che prende consistenza come una bestia feroce, famelica. Philippe Forest domina il tempo assente e lo spazio neutro, lo stesso degli smarriti. Questi soggetti non fanno domande, parlano portando addosso le “tenebre gelate”. Infine se ne vanno. In questi momenti lo scrittore sottrae al mondo la realtà e inietta un’aria soporifera. Il pozzo senza fondo è l’accidia che si propaga tra i cantieri e le nuove costruzioni sopraelevate, simbolo di una rapida, implacabile decadenza. La terribile minaccia annuncia l’apocalisse che riempie di torrenti un’immaginaria capitale ridotta a cloaca, accerchiata da un nemico limaccioso che non si può combattere. Dall’alto, sul tetto di uno stabile, lo specchio d’acqua stagnante riluce rendendo il malessere, paradossalmente, uno spettacolo della natura.

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Una posizione tutt’altro che atea e agnostica, è quella contenuta nella poetica di Remo Pagnanelli (Macerata 1955-Macerata 1987), poeta e critico che sembra imbattersi in un territorio dal lucore opalescente, nella persuasione di un verso scritto in un luogo non ancora scoperto nella deriva dei continenti, animato da un pensiero anacronistico, sempre vigile, infibrato da uno squarcio ineludibile. La visione e il metasogno pungenti di Pagnanelli sono intagliati da una lingua creante, da una parola-forma, dall’immagine del dopo morte. Come se davvero il poeta presago sapesse muoversi con dimestichezza nell’alba dell’aldilà. Il sonno, lo spolio, l’inumazione danno la sensazione di un mondo da cercare altrove, nell’ordine di una nuova, “altra memoria”, dove le cose assumono la veste della trascolorazione. Remo Pagnanelli lo dice con una pronuncia decisa: “Vorrei fare una lunga vacanza nella terra”, come fosse il gesto del trasmigrante che abbandona la corporeità per entrare in un’altra dimensione. I lari affollano la mente, danno conforto, ma allo stesso tempo bofonchiano e sono “scorporati dalle luci”, ammuffiti. Gli spiriti delle anime defunte accompagnano profili irriconoscibili, immagini sfrangiate. Preparativi per la villeggiatura (Amadeus 1988) è una raccolta poetica di sguardi fugaci, provvisori, di brughiere, di vento, di fole. Paesaggi umbratili e incantati vengono invasi di ombre tra i giardini e gli orti, tra le spiagge e le acque. “Sei mai stato, d’inverno, negli ultimi giorni dell’anno, in un tennis dai campi vuoti, qua e là gelati o sciolti in pozzanghere, con ex giocatori che sulle panchine si motteggiano, in attesa della primavera, felpati da tute e lane fino a terra”. Emergono i bagliori della mente, l’animismo attribuito in una terra di nessuno. Il post mortem si allinea ad una dichiarazione etica, per la quale la scrittura in versi altro non è che un’operazione archeologica nella direzione del principio, della conservazione e della custodia di ciò che è andato perduto. Il quadro compositivo rinvigorisce sequenze variabili con spiriti protettori che registrano una tensione metafisica. Il culto, però, non è per i morti, ma per il mistero delle cose, anticipazione del reale e prosecuzione del presente. Proprio i lari conferiscono la testimonianza della “villeggiatura”: entrano ed escono dalla vita, da ogni atto che la sostiene, in un verso che tende a guardare lontano. Si entra in un luogo magico dove le storie non finiscono e mantengono una voce, un movimento. Dio è una risposta inquieta, non una fede inconfondibile: un Dio che “pulisce” la visuale, da evocare, che potrebbe apparire da un momento all’altro, anche durante i preparativi per la villeggiatura. “Quale più abile degli architetti celesti, Dio presiede a questa mistura di bellezza appellato da tremendo”.

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Da dove viene il male? Lo scrittore Primo Levi (Torino 1919-Torino 1987) ammise: “Esiste un contagio del male. Chi è non-uomo disumanizza gli altri. Ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione”.
Se suscita riprovazione la sofferenza patita dai bambini, dagli innocenti, così come le scelte umane in cui il male equivale al bene e può essere commesso atrocemente, il libero arbitrio consente di eludere la perfezione di Dio che non appartiene all’ordine mondano. E allora, come immaginare Dio? Come raffigurarlo nel nostro ideale di uomini che credono? Non interventista, vestito di bianco, sospeso nel cielo, espanso, con la barba bianca e lo sguardo esigente, aspro? Come Gesù Cristo, un uomo tra gli altri, con le stesse fattezze fisiche? Come un’entità indefinibile, priva di corpo, di materia, ma con un’anima invisibile che può fermarsi ovunque, senza osservare ed indagare, nella sua onnipotenza? Dio non interviene sulla storia perché altrimenti l’uomo abiterebbe l’Olimpo, un luogo superiore destinato ai privilegiati che compirebbero un ulteriore passo accedendo al paradiso, alla beatitudine, alla felicità (teoria deista)?
Per il poeta Charles Baudelaire (Parigi 1821-Parigi 1867), “Dio è l’unico essere che, per regnare, non ha nemmeno bisogno di esistere”. Lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino (Comiso 1920-Vittoria 1996): “Se Dio esiste, chi è? Se non esiste, chi siamo?”. Potremmo citare decine di scrittori noti al grande pubblico ed emergerebbe una visione personale, rivedibile, da correggere, da confermare, perfino da smentire.
Per rimanere di nuovo alla nostra contemporaneità e riprendendo il leitmotiv di David Maria Turoldo, il narratore Giorgio Saviane (Castelfranco Veneto 1916-Firenze 2000) nel suo ultimo romanzo Voglio parlare con Dio (Mondadori 1996) giunge ad una epistemologia salvifica. Nello struggente racconto del credente risuona il bilancio di tutta un’esistenza, il punto d’approdo più alto delle capacità sensoriali e visionarie, quando lo scrittore, immerso nell’avventura della carne che si tramuta in energia spirituale, “galoppa” nella velocità della luce e nella fisica quantistica. Non è un mistero che per Giorgio Saviane l’esistenza di Dio si potesse spiegare con lo spirito immortale e invisibile che tiene unita la materia, ma era lui stesso a dire che l’uomo deve progredire per capire Dio. Con quale Dio parlare? Gandhi lo sentiva ogni giorno come un flusso, un velo, un’onda bianca e soffice. Giorgio Saviane auspicava di non perdersi nell’ipotetico per rendersi testimone di un piccolo esistere degli uomini che non saprebbero di essere l’universo. L’utopia rimane la battaglia contro la cronaca, un’immagine sovra-storica che contiene le pulsioni liberatorie per il diritto alla felicità: l’ultima grande scommessa.
Già nel romanzo Il Papa (Rizzoli 1963) Giorgio Saviane parlò di Dio attraverso la figura di don Claudio che conteneva un messaggio ideologico, teista (Dio interviene sulla vita degli uomini), suggestionato dal clima preparatorio al Concilio Vaticano II. Un sogno laico veniva proposto da un sacerdote che cercò di raggiungere il traguardo di Dio attraverso i sentimenti umani: “Io vi dico che è meglio non credere che credere a un misero dio incapace di guidare l’automobile, o che guardi con stupore gli aeroplani. Dio non è un mito primordiale: muove ciò che non capiamo ancora, e attende che l’uomo scenda dalle astronavi e veda com’era facile, in fondo, salire al cielo. Noi abbiamo ancora l’inferno, che serra l’animo dei bambini e svilisce le nostre azioni”. Un messaggio sconcertante per vincere il conformismo, l’oppressione, la paura. Un incentivo per pregare Dio dotati della grazia della fede, secondo uno stile che comprende vicinanza e tenerezza con il trascendente, perché le sponde tra la terra e l’altra riva siano a poca distanza. Credere vuol dire riconciliarsi con Dio, attingere all’acqua della speranza contro l’avventura e il tormento della dannazione.

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Non c’è dubbio che l’esperienza della fede si può sperimentare con il linguaggio dell’arte, della poesia. La parola che nomina e distingue custodisce il senso di infinito e l’immagine di Dio, che resta nella biografia di chi compone versi e scrive romanzi pervasi dal credere nel sovrannaturale. La fede individuale è una storia d’amore, di fiducia con un canovaccio, una cronologia, una trama. Si scopre, si alimenta, si nutre di incontri, vicende, luoghi, tempi.
Nell’interpretazione della realtà più recente, il potere mediatico sembra convincere che l’uomo abbia un’autorità perfino contro il tempo, contro la vecchiaia che anticipa la morte. La separazione tra la vita biologica e quella apparente produce un effetto schizofrenico. Il terzo millennio è in crisi anche perché la civiltà delle immagini e dei network ha reso esiguo, infelice il tempo. Pier Paolo Pasolini intuì il rischio della comunicazione e del suo linguaggio abusato, subitaneo, nonché la ripetizione delle formule, il servizio subdolo contro l’innocenza e la massificazione delle coscienze. La comunicazione degli anni Ottanta e Novanta ha formato la storia più recente che marginalizza Dio, che lo toglie dalle quinte della scena. Oggi l’uomo è inglobato in un conflitto tra il modello stereotipato che propina il principio di autoaffermazione e l’esigenza soppressa di andare oltre. In particolare negli ultimi dieci anni gli stereotipi hanno catturato la civiltà dei consumi nell’ossessione di apparire protagonisti in proprio nel presente. Il tempo esiste sempre meno nella sua dinamica naturale. Per l’uomo del 2020 l’evoluzione coincide con un modello perfetto, con un edonismo senza freni accentuato dall’uso dei social. Di fronte alla morte è dunque più nudo. Lo è di fronte alla malattia, al dolore, a Dio. Ha bisogno di anestetizzare il male per illudersi di scamparla dall’inevitabile che gli ricade addosso. L’assillo è paradossale: annullare definitivamente la morte. Ma l’uomo, nonostante le sue conquiste scientifiche e tecnologiche, è ancora “finito”. Come farlo convivere nel tempo reale e non in quello della celebrazione dell’io che sfasa, disorienta, confonde in una competizione sterile?
La vera funzione del tempo nasce dall’istinto di chi non trasforma nulla per un uso. La voce, pertanto, deve risuonare nell’anima. E’ la stessa di chi cerca Dio nella resistenza, come nella ri-creazione artistica, dove Gesù Cristo in una pala d’altare di Annibale Carracci e la Madonna in un’opera minuziosa di Giovanni Battista Salvi, esprimono il fascino della divinazione, della resurrezione, della dormizione. Se guardo il Cristo morto di Andrea Mantegna, conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano, scorgo un lamento, un’iconografia tra la Madonna, San Giovanni e la Maddalena (i tre dolenti). Sento lo sconvolgimento dell’espressione, un segno di gloria e sofferenza, uno spirito che non fa parte di uno spazio conchiuso, ma che nella figura distesa si eleva in un orizzonte verticale. Percepisco un pathos millenario, un tempo incalcolabile nella simbologia di parole/immagini inviolabili, che vanno dalla perfezione estetica alla speranza di Claudio, il Papa di Giorgio Saviane.

Alessandro Moscè

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