Una volta, al tavolo di un ristorante, come al solito pacatamente, a voce bassa, mi disse: “Scrivo perché credo che con la forma dei versi possa essere trattenuto un solo istante destinato a sparire immediatamente dopo. Tento di salvare il tempo per racchiuderlo nel calco della parola”. Come a dire, riprendendo una poesia tra le più note, “Porto in salvo dal freddo le parole…”. Francesco Scarabicchi se ne è andato dopo una lunga malattia (era nato nel 1951). Non è così segreta la poesia del poeta anconetano nato dal magistero di Franco Scataglini negli anni Ottanta, il quale, parafrasando Pier Paolo Pasolini, avrebbe potuto individuare la sua opera completa con un verso: “Cerco nel mio cuore, solo ciò che ha”. Viene fissata la verità di alcuni momenti irripetibili, nuclei fondanti, esistenziali, come la perdita e l’invasione del passato nel presente. L’ora felice (Donzelli 2010) ne fu un’ulteriore testimonianza, dopo La porta murata (Residenza 1982), Il prato bianco (L’Obliquo 1987), Il viale d’inverno (L’Obliquo 1989), L’esperienza della neve (Donzelli 2003) e Il segreto (L’Obliquo 2007), laddove emerge la condizione residenziale di esilio interiore, oltre che fisico e perfino geografico. Il dialogo che Scarabicchi instaura è un colloquio muto senza soluzione di continuità. Si afferma con forza la poetica dello sparire, dello spegnersi, di ciò che finisce e non tornerà più. Tutto va avanti senza di noi e spesso emerge nella tragedia di chi ci lascia, specialmente se si attraversano le rive della malinconia, se si accende la luce umana del ricordo. Un viaggio di formazione in definitiva, un destino e un disegno di paesi, stagioni, persone, oggetti. Viene combinata l’ambivalenza della rastremazione formale, come suggerì Pier Vincenzo Mengaldo nella nota introduttiva alla raccolta antologica Il cancello (PeQuod 2001), ad un presente ridotto, scartato, composto come una sorta di epistolario in versi che conferma la cifra linguistica di Scarabicchi, il quale perseguiva l’utopia, appunto, di una parola che dicesse il necessario negli interstizi del tempo (“Tutto il tempo del tempo non è niente, / età che si dissolvono, declini, / luci che vanno dov’è sempre sera, / anime abbandonate dalle cose, / sedili da Levante, tende, vele, / libri tradotti in polvere, missive”). Scarabicchi fornisce la visuale di un’onesta testimonianza. Non colloca nulla schematicamente, ma conosce e ricerca i fini. Poesia e vita, poesia ed esperienza, poesia e reale: questo ci sembra un dato più che mai recuperato. Il prato bianco, raccolta ripubblicata da Einaudi nel 2017, rappresenta un soliloquio che si genera dal luogo, in quel luogo e non altrove, come avvenne nell’opera del poeta di Cesenatico Ferruccio Benzoni, affine alle stesse tematiche. Il verso difende l’uomo in una nevrosi del privato, in un microcosmo suggestivo di una realtà locale che ha rappresentato una parte decisiva della poesia italiana del secondo Novecento. Viene da pensare a quella terza linea, dopo il grande stile e l’avanguardia, e all’esperienza della terza generazione. Scrive Francesco Scarabicchi: “Sono quest’ora ferma dentro gli anni / a consolare chi non si consola, / a togliere la gioia dov’è il sogno. / Scrivo parole che non serviranno, / musiche che nessuno può ascoltare, / piccole barche che mi lasceranno, / baci per bocche che non so baciare, / passi che t’avvicinano e non sanno”. La nudità di questa esperienza da “ora felice” è nella sobrietà di un rapporto con le cose come lo è stato per il maestro Franco Scataglini, ormai un classico, con lo spirito che dialoga continuamente con le persone scomparse. L’evocazione si staglia nell’orizzonte marino, nell’immagine inquadrata en plein air o, molto più spesso, dentro una casa, tra pareti domestiche. E’ lo spazio chiuso la difesa umana, la parabola dell’esistere. L’ambiente più amato si situa nella vibrazione di un afflato personale o in un’eclissi dove tutto sembra precario e instabile e dove ci si accorge che il miracolo sta nella partecipazione, nel rendere conosciuta un’istanza (“Passa anche di qua la nostra vita, / all’insaputa buia del lungomare, / nell’onda d’ogni brivido, nel sangue / di un gesto tuo che sceglie di fermarsi / dove il mio sguardo arreso ti pronuncia”). Istanza rintracciabile anche nelle traduzioni di due poeti molto amati, Antonio Machado e Federico Garcia Lorca, o nei quadri di Lorenzo Lotto, che dalle sue stanze e nel “cielo di chiusa tenebra d’azzurro”, ispirò Francesco Scarabicchi negli incantevoli versi dal titolo Con ogni mio saper e diligentia (Liberilibri 2013).
Alessandro Moscè