DANTE E IL VOLTO DI DIO

Il 2021 e Dante Alighieri. La morte avvenuta a Ravenna, suo luogo d’esilio, nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, è l’occasione per celebrare il poeta e la Divina Commedia, quel fatidico “quindi uscimmo a riveder le stelle”, un’esortazione pertinente adesso più che mai. Ma perché Dante è ancora così contemporaneo e la sua opera attuale, ineffabile, incomparabile? Il punto da cui partire è che Dante scrive dell’aldilà e i fatti assoluti si pongono sempre ad un livello superiore, perché sono connessi con l’inconoscibile. Tutto ciò che si relaziona alla nascita e alla morte, alla finitudine e al senso metafisico, costituisce il perno sul quale si muovono gli uomini terreni. La poesia, in questo caso, conserva una sua astoricità che conduce per mano il lettore. Dante si erge al di sopra del contingente, ma non è mai una potenza fantastica e innaturale a persuaderlo, bensì la struttura umana, una condizione che si butta a capofitto sulle ragioni ultime.
La storia non mi affascina. Semmai sono le singole vicende che mi inducono a pensare che in tutti i secoli esiste una ciclica ripetizione. Il senso escatologico si trova oltre i millenni, mai dentro di essi. Solo gli archetipi dell’esistenza incarnano un’immagine completa di vita. Dante fa i conti con illuminazioni liriche, con gesti e situazioni dolorose, che sacralizzano ogni individuo. Non so se sia ravvisabile una congruenza logica e cristiana in ogni soggetto che descrive, ma certamente l’uomo non può smettere di cercarla, proprio come in una tavola dantesca. Eppure oggi l’evoluzione della specie fa a gara con un modello perfetto, con un edonismo sfrenato. Di fronte alla morte l’uomo è nudo. Ha bisogno di anestetizzare il male per non pensare al dopo, per illudersi di scamparla dall’inevitabile che gli ricade addosso. L’assillo del Duemila è paradossale: annullare la morte con un elisir di lunga giovinezza. Ma l’uomo, nonostante le sue conquiste scientifiche, è ancora “finito”. Il viaggio nelle tre dimensioni dantesche ce lo dimostra e ci porta a dire: come si sta di là? Chi va all’inferno? Chi in paradiso? Quanto si può stare in purgatorio, nella penitenza? L’ossessione afferra le contraddizioni del nostro presente, affastellato di notizie lampo, di obiezioni prive di contenuto, di risse mediatiche, di battibecchi virtuali.
La Divina Commedia ci mostra l’altra faccia della verità, mai triviale: l’ineffabile mistero di Dio e dell’amore, la sete di infinito insita nei nostri cuori, come suggerisce Papa Francesco nella lettera apostolica Candor Lucis aeternae. Nell’aldilà i mortali sono in uno stato di miseria o di beatitudine, eppure immersi nella grazia divina. Eternità e tempo si incontrano tra il cielo e la terra, in un pensiero teologico che abbraccia bontà, verità, bellezza. Dall’oltretomba alla presenza di Dio il passo è breve per l’esule e pellegrino Dante Alighieri. Il poeta è il profeta della luce eterna e ci suggerisce che Dio ha un volto umano, misericordioso. Chi lo segue raggiunge la felicità oltrepassando la “selva oscura”. La meta ultima è la libertà, mai un’imposizione.

Alessandro Moscè

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