Era nata il 21 marzo, a primavera, proprio il giorno in cui viene celebrata la Giornata mondiale della poesia istituita dall’Unesco nel 1999. Su Alda Merini è stato scritto molto, troppo, specie da parte di chi ha focalizzato l’attenzione sulla donna che ha trascorso lunghi periodi in manicomio. Una pubblicistica molto più solerte ad evidenziare il personaggio che non la poetessa celebrata da Spagnoletti, Quasimodo, Montale, Pasolini, Turoldo, Erba. Si è arrivati a sovrapporre il carosello mediatico della signora dei Navigli alla quale furono sottratti i figli appena nati, alla sua arte. L’elettroshock, gli internamenti, le fotografie mentre posava nuda, le comparse in televisione hanno offuscato il talento di Alda Merini, specie nella percezione dei critici che storcevano la bocca per l’esposizione eccessiva al fianco di cantanti, cabarettisti, presentatori. Altrettanto si è riferito sulla propensione, per la verità poco elettiva, di dettare le poesie al telefono come fosse un gesto a comando. Eppure almeno La Terra Santa (Scheiwiller 1984), Vuoto d’amore (Einaudi 1991) e Ballate non pagate (Einaudi 1995) sono libri straordinari, in cui la brutalità dell’esistenza si piega ad un gesto di pietas, al richiamo d’amore, ad un ancestrale bisogno di esprimere il dolore di chi parla per tutti, tirando le somme, ossessivamente, sull’esistenza bilanciata tra privazioni umilianti e slanci vitali. Da La Terra Santa: “Corpo, ludibrio grigio / con le tue scarlatte voglie, / fino a quando mi imprigionerai? / Anima circonflessa, / circonfusa e incapace, / anima circoncisa, / che fai distesa nel corpo?”. Alda Merini possedeva il dono della parola fulminea incassata nel verso, dove un solo aggettivo rendeva caustica, affilata, lacerata, contratta o metafisica la poesia. Ci troviamo dinanzi ad un’entropia ordinata mediante una pianificazione diretta, ad un mantra che ha qualcosa di sacro, non solo di ontologico. Lo stile è argomentativo, comunicativo, direzionato in un profluvio di testi dove non tutto può essere celebrato sulla stessa lunghezza d’onda, almeno in termini qualitativi. L’anamnesi era la forza tellurica di Alda Merini, che pregava un Dio misericordioso, dalle fattezze umane. Ci parlavo spesso al telefono e la intervistai nel 1999. Mi disse, senza che glielo chiedessi, ridendo e provocandomi, che la cultura italiana era gestita talmente male, d’allora ministro, che sembrava in mano al governo. Preferiva il sadismo della parola all’azione, per quanto fosse un soggetto d’amore. “Sbattevo la porta in faccia a Quasimodo perché in mia presenza intratteneva romantiche conversazioni con belle ragazze”, mi confidò. E quando gli chiesi come fosse Quasimodo nella quotidianità, sentenzio: “Un uomo eccezionalmente noioso e intelligente. Forse più noioso che intelligente”. Voleva che il poeta di talento dettasse legge, che contasse, perché “la poesia è amore sociale”. Attenzione, amore sociale, non civile. Frasi sconnesse, eppure sprigionate da una visione tormentata e geniale: “La bellezza è soggetta alla più grande patologia sociale che esista, l’invidia”. Difendeva uomini e donne dalla fisicità prorompente. “Il sogno non è mai delirio. Io sogno”. Avremmo potuto stare delle ore a parlare, ma preferivo leggere la sua dialettica dell’emozione, il desiderio sofferto, frustrato che emanavano i suoi libri migliori, la lingua comune intrisa di rifrazioni, di inni, perfino di beatitudini. Da Ballate non pagate: “Tornai allora a quella neve chiara / che arrossiva i miei guanti nella notte, / quando da sola e per ben corta via / venivo a rintracciare la speranza”. Tra una luce divina e un corpo vibrante, la notte di Alda Merini è sempre stata, in fondo, l’auspicio di un’alba di fiori e di grazia emersa “dalle trame del buio”. Oggi di lei rimane il mito paragonabile a quello per Pier Paolo Pasolini. Nell’anniversario dei 90 anni dalla sua nascita riapre virtualmente “Casa delle Arti – Spazio Alda Merini” a Milano. I versi di Alda Merini risuoneranno nei video, online sulle pagine Facebook e Instagram e nelle maratone poetiche. E’ un riconoscimento tributato specie dal suo pubblico numerosissimo e fedele.
Alessandro Moscè