LO SCRITTORE E LA PANDEMIA

Leggo che con la zona gialla ed un weekend di sole si è tornati ad affollare le strade di Roma e Napoli. Traffico intenso nei quartieri nevralgici delle città fino all’ora di cena. Tornano ad essere pieni i ristoranti per accaparrarsi i posti a sedere, a pranzo, nelle ore di punta. Si registrano un po’ ovunque gli assembramenti per la movida. I negozianti non fanno grandi affari, ma nelle piazze e lungo il corso dei principali centri storici italiani si cammina di gran lena. Il sindaco di Napoli ammonisce: “Non cominciamo con la litania della meraviglia, perché sarebbe il festival della stupidità”. Credo che abbia ragione.
Chissà se per uno scrittore l’isolamento sociale, la quarantena, la desertificazione vengano vissuti in modo diverso rispetto a chi svolge altri lavori, completamente diversi. Presumo di sì. Un poeta e un narratore viaggiano anche dentro una stanza (Xavier de Maistre), non hanno la necessità improrogabile di spostarsi fisicamente. Per comunicare possono ricorrere, nell’immediatezza, alla tecnologia. Scrivere, in fondo, è un mestiere che non consente molti diversivi. Quando è ora di conversare con sé stessi e con la pagina, anche il rombo di un motorino può dar fastidio. Ci si chiude in una camera, nella solitudine di un quadrato che fa del pensiero creante la propria materia da plasmare. Se Alessandro Piperno parla di sociopatia quasi confezionando l’abito perfetto del romanziere, aggiungo che una giornata è scandita necessariamente da momenti di calma apparente e di distacco emotivo dall’altro: una moglie, una compagna, un figlio, un genitore. Leggo a letto e la prima stesura dei miei libri la scrivo a letto con due penne. Prendo appunti ovunque, su dei foglietti, anche quando esco, se mi colpisce una finestra o il taglio di capelli di una ragazza, il selciato di una strada o la loggia di una struttura architettonica.
Ma la domanda chiave alla quale voglio arrivare è questa: quanta fatica costa restare appartati e rinunciare alla mondanità, ad una cena, ad una vacanza, al contatto con le persone che fanno parte da sempre della nostra vita? Penso al commerciante, al rappresentante, al manager di una multinazionale. Capisco che ci sono esistenze dimezzate, mutilate. Penso ai giovani e alla loro smania di scoperta repressa. Penso al mancato ingresso in un luogo pubblico, una biblioteca o un museo. Dico la verità: non provo malinconia. Non amo la calca, né le feste comandate, né i luoghi particolarmente affollati, né le visite guidate. La pandemia non mi impedisce di conoscere gli sviluppi del mondo tramite la televisione, di seguire le partite di calcio, di spostarmi dalla mia abitazione all’ufficio dove lavoro e continuo a scrivere.
Dunque, cosa sta succedendo nella mente della gente, con questa terribile pandemia che ha provocato milioni di morti? Credo che sia qualcosa di anacronistico a colpire il cittadino, molto più del bollettino settimanale dei guariti, dei contagiati e dei deceduti. Quale risvolto nell’imposizione e nella rinuncia? Innanzitutto il rischio che il Covid-19 mieta sempre più vittime e che non risparmi il proprio nucleo affettivo. L’insicurezza di un male, imprevedibile e incontrollabile, cristallizza la precarietà dell’uomo dinanzi al destino universale e soprattutto alla morte. E’ anacronistico anche non sapere cosa succederà dopo la fine della pandemia, perché la salvezza sta nel mantenere un posto di lavoro e un reddito, non solo nello scampare al virus. La paura, dunque, è il sentimento più negativo, più subdolo delle stesse restrizioni che subiamo. I rapporti di coppia sono a rischio, se non ci si può vedere. Il Covid-19 ha mutato le abitudini e ha reso la popolazione tutta meno spavalda. Ha accomunato i giovani e i meno giovani in una bruttura che non si può evitare.
Credo, però, che il Covid-19 abbia reso più solidali i vicini di casa, perché è quando le cose non vanno che si sente il bisogno di un conforto. Il telefono e i social aiutano, come uno sfogo, un’esplosione d’ira, una tristezza confidati nel pianerottolo di un palazzo, in un garage, dal giornalaio, dal panettiere. Se il vicino può essere un potenziale infettato, non lo vediamo come un avversario che ti afferra alla gola, ma come noi stessi, con la stessa faccia e lo stesso umore. Nella debolezza ci si capisce di più, anche se si litiga, anche se ci si rimprovera una manchevolezza, un gesto sbagliato. Sappiamo che c’è sempre un tempo a venire, un secondo tempo, quello della normalità che potrà tardare, ma non potrà mancare.
E lo scrittore, infine, cosa perde con la pandemia? Probabilmente lo sguardo, il suo sguardo. Ricordo che a Natale, nel 1977, ad Ancona, passeggiavo con i miei genitori in corso Mazzini. C’era un Babbo Natale che regalava caramelle ai bambini, un albero addobbato, le luci che spiovevano dall’alto, da un muro all’altro. I miei occhi andarono verso una fenditura, un’ombra, un vicolo laterale, vuoto, dove non passava nessuno. Mi attrasse irresistibilmente. Anni dopo sono passato in quel vicolo e l’ho fotografato. Ci ho scritto un testo poetico. Oggi non potrei farlo, come non posso camminare, come nulla fosse, nel giardino pubblico di Fabriano tra un ippocastano e una panchina di pietra. Lo scrittore è un ladro di sguardi che cattura stati d’animo, scorci, visuali, oggetti. “Ci sono certi sguardi di donna che l’uomo amante non scambierebbe con l’intero possesso del corpo di lei”, scrisse Gabriele D’Annunzio. La pandemia ha svuotato l’anima delle cose, ciò che normalmente non vediamo abbastanza, incuranti nel nostro andare da qualche parte, di fretta. Lo scrittore ferma il suo orologio, ma non sempre, per scrivere, la visionarietà di un Giorgio de Chirico gli è sufficiente. Deve vivere oltre un metafisico tendaggio, chiuso e sconosciuto. E’ parte di una comunità e non potrebbe rinunciare alla voce. La realtà, del resto, proietta ogni forma di virtualità (non succede mai il contrario). Prendere le distanze dalle abitudini colloquiali, una volta chiusa la porta di casa, significherebbe rinunciare ad essere uno scrittore. Il mantra “io resto a casa per il mio bene e per quello degli altri” è una contraddizione a discapito della vicinanza, nella società dei confini diventata sofferta e abulica, accidiosa, irresoluta.

Alessandro Moscè

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