La prima volta che ne sentii parlare fu all’università, a lezione di Diritto Privato, in un’aula affollatissima. “E’ sparito Caffè”, disse un ragazzo con la barba ispida. Gli rispose un buontempone: “Se lo sarà bevuto qualcuno”. E finì con una risata, mentre il docente entrava nell’aula accigliato e ci accomodavamo a testa bassa tra i banchi, con in mano il tomo del giurista Francesco Gazzoni.
Giorgio Scerbanenco si sarebbe addentrato nella trama complessa della vicenda e ne avrebbe tratto un romanzo limpido, simile a Nessuno è colpevole o a Mio adorato nessuno, due dei suoi capolavori. Leonardo Sciascia avrebbe riscritto, sulla falsa riga di La scomparsa di Majorana, un racconto memorialistico per cogliere le contraddizioni dell’animo di un personaggio tanto noto quanto stimato, del quale non si seppe più nulla.
L’abruzzese Federico Caffè era un uomo mite, umile, riservato, comprensivo specie con i suoi allievi. Aveva uno sguardo assorto, un pallore ascetico evidenziato dalla montatura degli occhiali spessi, neri. Il fisico minuto, sottile, chiuso nella giacca e nella cravatta scura sotto un maglione girocollo di colore blu. Le labbra pronunciate, come fossero un ulteriore occhio prensile, che capta, che si sporge verso l’altro, eppure espressione di una vulnerabile infelicità. In un video di repertorio è sprofondato nella poltrona della sala retrò del suo appartamento ed emerge come una creatura celeste, un iniziato ascritto ad un compito più grande, profetico. Scriveva con mestizia, assestando un colpo al sistema politico italiano: “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili”.
Parliamo di un economista di livello internazionale, di grande fascino, che fu il maestro dell’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi, di Ignazio Visco, Guido Rey, Enrico Giovannini. Maestro, cioè un “di più” per lo studioso prodigo che disdegnava i luoghi comuni con il fine di estrarre solo lo specifico della conoscenza. Il welfare e la distribuzione equa del reddito rimangono i capisaldi dell’insegnamento accademico all’Università La Sapienza di Roma, condotto con rigore e passione. Caffè approfondiva la materia con prontezza d’intuito, abiurando ogni apertura cosmopolita, fiduciaria, di una civiltà individualista. Scomparse a 73 anni, a Roma, il 15 aprile 1987, misteriosamente. Oggi Federico Caffè lo ricordano in molti proprio perché il suo nome viene associato a quello del premier, ex governatore della Banca d’Italia ed ex presidente della Banca centrale europea.
Un vuoto inatteso, con molte ombre nella città deserta e fasciata di sonno, quel 15 aprile 1987. Caffè abitava in via Cadlolo tra il quartiere Monte Mario e la Balduina, con il fratello malato, insegnante di lettere in un liceo romano. Si disse che si allontanò di casa alle 5 del mattino (chi lo vide all’alba di quel giorno particolarmente freddo?) e si avviò lungo la panoramica dalla parte del colle che dà sullo Stadio Olimpico. Lasciò sul comodino gli occhiali, il portafoglio, il passaporto e il libretto degli assegni. Gli studenti si commossero e temendo il peggio fecero dragare il Tevere, pur di ritrovare il corpo esanime, per dargli una degna sepoltura e per superare uno svuotamento doloroso, uno scoramento tutto sentimentale. Lo cercarono a Pescara, dove era nato, nelle case degli amici comuni. Niente di niente. La trama si infittì e la verità non venne a galla, serrata in un’impermeabile incognita. Si pensò ad un suicidio: il professore versava in cattive condizioni economiche? Qualcuno asserì che non poteva sopportare la pensione e la solitudine, altri che soffriva per non essere stato compreso nelle teorie keynesiane che avrebbero dovuto bilanciare la domanda e l’offerta nel mercato dei consumi, in una società sempre più capitalistica e neoliberista, indifferente ai bisogni delle categorie più deboli.
Dove andò Federico Caffè il 15 aprile 1987, sotto il cielo baluginante dei lampioni di Roma sferzati dal vento fresco di bruma che gli fiondava sul volto gli echi del passato, forse definitivamente, e non di certo come pegno d’amore? Aveva un passo spedito nell’ora dell’aurora, in un mare di asfalto senza confini? Era un uomo che soffriva di amnesia, che tentennava, o si trattava di un abile inganno per depistare il fiuto delle forze dell’ordine, qualora lo avessero avvistato nei recessi della metropoli? Una macchina lo attendeva per attraversare Roma Nord verso l’Aurelia, nell’antica strada consolare, per lasciare la capitale e i residui affetti dai quali voleva distaccarsi?
L’allievo Federico Archibugi, teorico dei rapporti economici internazionali, idealista e fautore della democrazia cosmopolita, avrebbe riferito che il professore gli chiese di aiutarlo a morire, ma la notizia non venne mai confermata. Era l’8 aprile 2012 quando a sorpresa Archibugi scrisse un articolo per “Repubblica”, vagamente criptico. Allora era dirigente del Cnr, docente all’Università di Londra Birkbeck College e professore onorario all’Università del Sussex. “Negli anni in cui frequentai l’università, dal 1976 al 1982, il professor Federico Caffè è stato l’amico più vicino, nonostante fossi quasi mezzo secolo più giovane. Come altri affezionati allievi che avevano saputo della sua depressione, cercavo di aiutarlo passando qualche ora nel suo studiolo. La mia amicizia con Caffè è iniziata ben prima che nascessi. Mio padre era il suo migliore e forse unico amico, e lui fu il testimone di nozze dei miei genitori. Era assai riservato e sin da bambino ho pensato che fosse la sua statura, era alto un metro e mezzo, a renderlo così schivo”.
In realtà nessuna ipotesi fu scartata. Sembrava di rievocare i tristi giorni del rapimento di Aldo Moro e della notte della Repubblica, affannosamente uguale a sé stessa. Ponte Duca d’Aosta, Ponte Marconi, dove un fotografo vide un uomo gettarsi nel Tevere (fu ripescato), Tarquinia. Gli studenti ricorsero ai sensitivi e il professore fu cercato nel paese delle necropoli. Dal fiume il cadavere non emerse. A Tarquinia Federico Caffè non era mai stato. Il bibliotecario dove si forniva regolarmente non sapeva alcunché, né chi lo vide negli ultimi giorni, garbato come sempre.
Nel 1999 la possibile svolta. Un cadavere in un pozzo, ad Ariccia, viene accostato all’economista, ma si trattò di una bufala. Successivamente arrivò una confidenza dei familiari dell’economista Ezio Tarantelli, ucciso dalle Brigate Rosse perché accusato di appoggiare gli Stati Uniti d’America: il giorno della scomparsa Federico Caffè si trovava in via Salaria. Il motivo non venne svelato, o non è mai stato conosciuto.
Anche lo scrittore napoletano Ermanno Rea si interessò al caso e scrisse un libro, la prova del muro di cemento e del groviglio dipanato in un’ipotesi come altre: L’ultima lezione (Einaudi 1992), in cui immaginava un progetto di fuga. Nel 2008 aggiunse un capitolo: L’economista che visse due volte. Caffè sarebbe stato per anni in un convento al pari di chi ottiene asilo politico: nascosto, dedito ad un’esistenza povera, alla cura dell’orto, meditabondo. Forse in Calabria? No, in Lombardia, o addirittura a Roma, ad immedesimarsi nella carità di Cristo o in un personaggio biblico che si spoglia dei suoi averi e segue l’ascetismo, non più la giustizia sociale. Qualcosa di appagante che viene dal cielo, in un universo dove non c’è bisogno di salvaguardare le idee, i diritti, l’utopia, ma il valore di scambio del buon senso slegato ad un valore d’uso.
“La chiesa offre protezione”, avrebbe detto ai primi di aprile ad un altro allievo, il prediletto Bruno Amoroso, economista naturalizzato danese, venuto a mancare nel 2017. Lo avrebbe contattato e Federico Caffè gli avrebbe fatto ascoltare al telefono una sinfonia di Mahler. Amoroso gli offrì il suono e le parole di una canzone di Lucio Dalla. Usiamo il condizionale, seppure Amoroso diede alle stampe Memorie di un intruso (Castelvecchi 2016), in cui il suo maestro risulta un genio inseguito attraverso la ricognizione della sua testualità. L’intento appare tutt’altro che commemorativo o cerimonioso, piuttosto un modo di interpretare la realtà alla stregua di chi sottolineò la consapevolezza di un futuro nebuloso.
Il mistero di Federico Caffè non avrà mai una spiegazione esaustiva. Il professore, come in un’allucinazione, è ancora avvolto nell’imponderabile, in una specie di allegoria dominata dalla casualità, dall’ingegno, dalla prostrazione, perfino dal misticismo. Fece perdere sagacemente le sue tracce o si lasciò andare nell’accidia e nell’umiliazione ad una malattia dell’anima? Cambiò vita o scivolò in un gorgo mortale? Chissà cosa ne pensa Mario Draghi, il cui ricordo lo immalinconisce, ma che sul caso non si è mai voluto esprimere pubblicamente per non tradire la sua austerità, l’essere continente affacciandosi alla giovinezza che gli scorre dietro le spalle. Forse anche lui proverà una fitta al cuore nell’orizzonte lontano di quando ascoltava l’eloquio pulito di Federico Caffè. “C’è almeno un punto in ogni sogno, dove non si può toccare il fondo: un ombelico, in un certo senso, che è il suo punto di contatto con l’ignoto”, avrebbe sostenuto Sigmund Freud.
Alessandro Moscè