LA CITTA’ SENZA FINE DI MARIO LEVRERO

Ci sono opere letterarie che rimangono come un gancio appeso, in attesa che vi si posi qualcosa che non verrà mai rivelato. Si rimane a bocca asciutta, senza sapere, senza neppure immaginare, senza, dunque, capire qual è il risvolto dei fatti salienti, la materia da agganciare. Il romanzo di Mario Levrero La città (La Nuova Frontiera 2020), che fa parte di una trilogia, è intrecciato di rincorse, aneliti, spaesamenti di un uomo solo. Un tentativo di ritornare sui propri passi dopo essersi perso, non va a buon fine, se non per l’abbandono al sonno in un treno dove si sta appiccicati, appoggiati su una “massa calda e silenziosa che non protestava per il mio peso, né per nessun altro fastidio del viaggio”. La città onirica della quale non si conosce il nome, con strane abitudini, accompagna l’io narrante uscito di casa per comprare da mangiare. Un improvviso acquazzone gli fa perdere la strada del ritorno e un camionista, con accanto una strana e sensuale donna, Ana, gli dà un passaggio. Lo conduce in un luogo tanto misterioso quanto surreale. Il libro dello scrittore originario di Montevideo uscì per la prima volta nel 1970. Levrero, venuto a mancare nel 2004, è un autore di culto per molti latino-americani che ne hanno seguito l’evoluzione visionaria in un enigmatico percorso di scoperta ai limiti della realtà. Tutto, in questa narrazione labirintica, è da decifrare. A partire dalla stazione di servizio, dai frequentatori dei locali, dai commessi dei negozi, da chi ospita il protagonista, dai personaggi visibili e invisibili, che spariscono e non tornano. Lo sperdimento non preventivato, è dunque un inizio o una fine? Se fosse l’inizio, dove verrà condotto il malcapitato viaggiatore? Se fosse la fine, la città (o meglio un agglomerato di case), un posto anonimo, triste, sommesso, pieno di ubriachi, di losche e non identificabili figure, sarebbe anche un posto infernale, almeno metaforicamente. Se viceversa il protagonista vivesse un sogno, un incubo e nient’altro? Non lo sappiamo, non lo sapremo. “Forse prima di entrare, nel momento in cui ho aperto la porta, ho notato l’umidità; i muri e il soffitto gocciolavano, tutte le cose erano umide, come fossero coperte di bava, il pavimento scivoloso. E l’aria rarefatta, con odore di chiuso e di assenza prolungata di esseri umani. Il tempo non aiutava; da qualche giorno non si vedeva il sole, e cadeva senza sosta una sottile pioggerella e, di tanto in tanto, un acquazzone molto forte. La casa non aveva un impianto di riscaldamento; per il momento non sarei riuscito a liberarmi dell’umidità”. L’incipit non ci aiuta, perché è già una frontiera, il viatico per andarsene. Il protagonista di Mario Levrero fuoriesce da un mondo dove esistono regolamenti inconcepibili. Cerca la stazione ferroviaria, più nascosta che ubicata da qualche parte. Ma dove si trova di preciso quest’uomo, viene da chiedersi in continuazione? Perché chi lo avvicina lo considera con sufficienza, in spezzoni di racconto dove ogni parola scarna nasconde altri significati e dove la luce crea più ombre che altro? L’io narrante raccoglie dati per creare una certa suspense, e gli riesce. Il lettore procede in cerca di un punto di approdo, di un laccio, di un filo logico, di un’interconnessione, esattamente come chi scrive. Levrero è stato paragonato a Kafka, in quanto una spiegazione razionale sfugge sempre di mano. Ma qui l’impressione è che sia il desiderio a muovere il tutto. Un desiderio d’amore che restituisca un’atmosfera meno rarefatta. Anche questo aspetto resta sospeso, un punto interrogativo tra gli altri.

 Alessandro Moscè

 

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