Chi lo ha detto che non esiste un cinema di poesia (vedi Pier Paolo Pasolini), o che un cronista, un giornalista non possa essere un poeta, al pari di uno sceneggiatore o di un regista? Il vizio di incasellare schematicamente da parte della critica accademica, toglie fiato ad un ingegno multiforme, ad un carisma che può riversarsi sulla pagina scritta o sulla pellicola, sul reportage o in un libro in versi. Tonino Guerra e Federico Fellini sono esempi medianici, messaggeri di una tematica ampia e dialettica, consapevoli dei mutamenti condensati nella creatività. Lo stesso può dirsi per il grande Sergio Zavoli, che scrisse poesie niente affatto fagocitate dentro un linguaggio stravolto o in una rappresentazione pallida, macilenta. Era nato a Ravenna, la città dove la tomba di Dante, presso la basilica di San Francesco, è un luogo di culto e di devozione. Esordì nel 1995 con Un cauto guardare (Mondadori) e proseguì con In parole strette (2000), sempre edito dal massimo editore italiano, come L’orlo delle cose (2004), La parte in ombra (2009), L’infinito istante (Mondadori 2012) e La strategia dell’ombra (2017). L’infinito istante mi colpì per un testo in cui gli occhi guardano in basso, ma finiscono per puntare il cielo estivo, un orizzonte lontano, immagino accecante, che contiene il senso del tutto: “Le ragazze scrivevano / i nomi sulla sabbia / e con la mano cancellavano / in fretta i segni offerti / al rischio di un’ondata. / Chissà se sono stato / nelle storie vissute grazie a un dito / che scrive sulla rena, / se il gioco era un segnale per il dopo, / ogni nome una larva di qualcosa / o icone senza idee, solo graffiti”. Zavoli era sensibile all’attimo che svanisce come l’onda che si ritrae, ad un ambiente paterno, sorvegliato da quel Dio nascosto che lo tormentava, sul quale non mancava di indagare, come se da una dimora vicino Rimini, appena fuori dal centro storico, con il suo amico Federico potesse ascoltare un sibilo, un vento provenire dall’aldilà. Amava le considerazioni intimistiche, quel poco della vita infuocato nel ricordo, nato da una cultura popolare, da una giovinezza riassaporata negli odori (della salvia vellutata), nei sapori (della tavola imbandita), nello riflesso della natura (i rigagnoli dell’acqua). Zavoli tendeva, nella sua indole, alla malinconia e non a suggellare il mistero: si confrontava umilmente con una vibratio assoluta, nel passaggio, nel transito dalla terra ad un altrove. Quell’altrove che era la morte e l’incognita del proseguo, della quale afferrava una luce sobria, un sentimento ragionato da umanista, come scrisse Carlo Bo. Ispirandosi a Sant’Agostino Sergio Zavoli pensava e agiva scrupolosamente nel lavoro giornalistico, ma nella poesia si fermava come prima di partire per un lungo viaggio, trovando l’intensificazione più alta di un’esperienza e di un’espressione, di vicende quotidiane, sublimi, rituali, cosmiche. Solo oggi ho letto i testi di La parte in ombra in cui scrive: “E’ in pezzi la parola, le somiglia soltanto / l’ascolto ammutolito che le diamo”: una parola data e confrontata tra radici comuni e domande ancestrali. Zavoli sarà seppellito accanto a Fellini, e probabilmente rimarrà impressa nella memoria degli italiani soprattutto una massima, una testimonianza spirituale dell’epoca che non era più la sua: “Oggi abbiamo bisogno di capire perché viviamo un tempo che non ci piace”. Forse perché evitiamo un interrogativo interiore, l’autocritica che lo snodo cruciale della poesia permette ancora di irradiare, in quell’epicità che racconta l’incertezza dell’esprimibile, la precarietà di ogni vissuto.
Alessandro Moscè