Il mito di Emily Dickinson (ormai celebrata come una diva del rock), per chi si occupa di letteratura, è cresciuto ulteriormente con il recente libro di Benedetta Centovalli: Nella stanza di Emily (Mattioli 1885 2020). Un viaggio descrittivo, un po’ sciamanico, lieve, che converge verso il cerchio concentrico che non è l’animo lindo della poetessa, ma la casa, la misteriosa casa dove visse e scrisse. L’abitazione e il paese sono definiti una “prigione volontaria”, mentre la paura di allontanarsi fotografa eccezionalmente l’ossessione per ciò che ad Emily Dickinson stava più a cuore: la famiglia. La paura di morire, e più ancora della morte del padre (un duro) e della madre (una donna fragile), la portarono a coltivare un amore vestito di pagine, la cura per la casa biblioteca, per la solitudine monacale, intensa, non disperata, né felice, ma inattaccabile, al fianco degli affetti più cari. Nel 2001 Benedetta Centovalli raggiunge New York, Long Island, l’Hudson, Manhattan, con in testa un libro di André Gide che nel passaggio dall’età giovane alla maturità segna lo spartiacque e la dicotomia tra desiderio e colpa, sacrificio e redenzione. Le stesse impressioni, le stesse contraddizioni di Emily Dickinson? Amherst, la cittadina puritana, il luogo “segreto e protetto”. Le due case, la Homestead, dove Emily visse fino al 1866, e gli Evergreens, del fratello Austin e di sua moglie, irrompono anacronisticamente. Benedetta Centovalli rimane colpita dalle finestre della stanza che visita, dalla luce “solida, disegnata a linee rette che somiglia a quella dei quadri di Vermeer e che sembra resistere al buio della notte”. Qui tutto si compie. La vita mentale, creativa, amorosa, sognata, guardata dalla finestra verso l’altra casa o verso il paese. E’ “la torre d’avvistamento”, suggerisce Benedetta Centovalli. La luce arriva diretta, inonda la stessa immaginazione di ciò che è stato nell’Ottocento. E poi la casa della giovinezza, vicino ad un cimitero, che appare come il preludio alla morte, un accostamento che fa meglio percepire il tutto e il niente, l’eternità. In mezzo i fiori di ogni specie, le piante, gli animali domestici e selvatici, le api portatrici di un segno distintivo, di quel volo di speranza in un possibile aldilà, che Emily Dickinson non vede, ma sente nella sola dimensione sconosciuta, perché la vita non può durare per sempre nella cadenza temporale. L’interruzione conduce alla separazione, non alla consolazione della fede. La natura umana incrocia altro, quella morte che si presenta in carrozza, con le sembianze di un uomo, di un galante seduttore. Emily Dickinson era anche colei che cucinava, che scriveva lettere, che riceveva missive, che venne stroncata frettolosamente da un ex pastore sostenitore dei diritti delle donne, Thomas Higginson. La tempesta del giudizio negativo e la sua ritrosia ne faranno una donna delusa, che non pubblicherà i versi. Nonostante avesse chiesto di bruciare tutto alla sua morte, sono rimaste 1800 poesie e 1046 lettere per volere soprattutto della sorella. Il gioco del riconoscimento e dell’immedesimazione, Benedetta Centovalli lo scopre con la pandemia da Covid-19. Siamo diventati tutti Emily Dickinson per mesi, chiusi in casa, circondati da timori incontrollabili. Il pericolo del contagio con la malattia è compensato dal contagio con la poesia, con le proprie stanze. Il distanziamento sociale e l’altro, del quale abbiamo diffidato, hanno indotto quella “bipolarità familiare” entrata adesso nella storia privata della gente come allora nella sentimentalità di Emily Dickinson.
Alessandro Moscè