Da «Menabò», maggio 2020
Non è insolito, nel caos editoriale e nel panorama variegato della poesia italiana contemporanea, imbattersi in esperienze poetiche di assoluto rilievo, quanto mai lontane dalle luci della ribalta, ma fondamentali per la profonda necessità espressiva che le ha generate. E’ il caso de La vestaglia del padre di Alessandro Moscè (Aragno 2019), opera della piena maturità del poeta anconetano, peraltro anche autore di romanzi e attento critico. Moscè appartiene a una generazione, quella dei nati negli anni Sessanta-Settanta, che più di altre soffre l’assenza di un lavoro sistematico, da parte della critica, di cui si avverte l’urgenza, per la qualità delle voci che ne fanno parte, strette tra il (giusto) riconoscimento dei maestri che le hanno precedute, e l’abilità dei più giovani nel farsi largo sul mercato editoriale e della comunicazione internettiana, dove, tuttavia, è molto più facile che una parola non “necessaria” e meno resistente all’usura del tempo venga inghiottita dal Web.
La vestaglia del padre è forse l’opera più personale, intimista di Moscè, un autore peraltro in cui la dimensione del diario e della concrezione fisica molto precisa del luogo della poesia è stata sempre presente (vedi la ricorrenza del luogo nei titoli delle precedenti raccolte, L’odore dei vicoli, Stanze all’aperto ed Hotel della notte). Dedicato al padre recentemente scomparso, quest’ultimo libro di versi si sviluppa come un prolungamento del dialogo con il genitore, distinguendosi da una vera e propria elaborazione del lutto. Non sono affatto sicuro, anzi, che ci troviamo di fronte a una poesia di elaborazione del lutto. E di certo sarebbe sbagliato conferire a una lirica del genere una funzione esclusivamente consolatoria. Permane una tensione interna a trattenere il padre, a non lasciarlo andare, a farlo rivivere nella poesia. Recentemente, un grande poeta che ho il privilegio di frequentare, Giancarlo Sissa (tra l’altro prossimo a pubblicare un libro di versi dedicato al padre, anch’egli venuto da poco a mancare, Archivio del padre) ricordava come negli orientali una persona muoia due volte: una prima volta per morte biologica; una seconda quando nessuno si ricorda più di lei, quando nessuno può raccontarne una storia. Parlando della scomparsa di mio padre (avendolo anch’io perduto nemmeno due anni fa) e del suo, Sissa mi faceva notare, saggiamente, come il rapporto con mio padre non fosse, in fondo, finito, ma semplicemente cambiato. Ne è profondamente consapevole Alessandro Moscè che intesse una trama di ricordi che, più che al romanzo in versi bertolucciano, fa pensare al “diario senza montaggio” di Ferruccio Benzoni, una sequenza di flashback e fotogrammi che per la loro vividezza riportano al linguaggio filmico. Un aspetto che risalta con nettezza nella prima sezione, la maggiore per intensità e commozione lirica, delle cinque proposte: basti soffermarsi sulle poesie di ambientazione romana, dove la rievocazione del giovane padre tra gli anni Sessanta e Settanta, nella lontananza del ricordo, assume i contorni del mito familiare. Il fascino di sequenze sospese nel tempo (Senza tempo è il titolo della sezione) dove ricordi della prima infanzia, sogni, racconti si fondono nell’immaginazione del poeta. Moscè a tratti sembra ispirarsi a Giorgio Caproni quando descrive la madre Anna Picchi, da ragazza, a Livorno, prima della nascita del poeta; anche il poeta anconetano, pur senza alcuna implicazione psicanalitica, ci mostra delle sequenze antecedenti alla propria nascita (gli anni Sessanta) o di una remota, primissima infanzia. Infanzia accesa dai colori biancocelesti della Lazio, dalla passione comune di padre e figlio per la squadra di campioni degli anni Settanta (dall’allenatore Maestrelli, a Pulici, al prediletto centravanti Giorgio Chinaglia).
La forza lirica della poesia di Moscè si coglie nelle continue oscillazioni tra passato e presente, all’interno di una stessa sezione o componimento. Nella splendida prima sezione, struggente e malinconica, lo smarrimento del poeta per la morte appena avvenuta del padre, “custodito negli abiti vuoti della casa”, si esprime proprio attraverso gli oggetti che gli appartenevano (cuscini, ciabatte, cravatte, vestaglie), termini di una “corrispondenza d’amorosi sensi” (Foscolo), e attraverso una serie di particolari domestici (dagli armadi, alle mattonelle, fino alla polvere delle stanze) che ne testimoniano l’assenza. Rifuggendo dalla realtà gelida del presente, Moscè ricerca il “caldo buono” (Ungaretti) dei Natali d’infanzia “con lo stoccafisso sul piatto” e “i cappelletti in brodo”; o il “teatro in allegria” del padre con gli amici, opposto a quello che Umberto Piersanti, di cui Moscè è studioso scrupoloso, chiamerebbe il “tempo nuovo” di Google Maps o della Freccia Rossa, di un Natale “spoglio” del 2013 (“la vita vera è finita in un altro girone. Non più il passato e il respiro disteso… l’allegria che invadeva la vita di tutti”), di una “Roma impassibile di hamburger e patatine /che si mangia le parole e l’amore”, che non può restituire ad Alessandro Moscè la Roma vissuta dal padre. Il poeta sa tuttavia che “non tornerà più”, che “non c’è più un sogno d’infanzia…per il mito dell’andare e tornare/da luoghi inesistenti”. Moscè non vagheggia nessuna età dell’oro: in una scrittura piana, realistica, legata alla tradizione antinovecentista e antiavanguardistica (Sereni, Gatto, Penna), il nostro ha fatto sua la lezione di Leopardi (la rimembranza) e Pascoli (“il ricordo è poesia; e la poesia non è se non ricordo”), giungendo a trasfigurare in senso lirico il passato per sottrarlo all’oblio. Il poeta è esplicito ed estremamente lucido nel riconoscere che il passato di cui parla è un’invenzione poetica, è la poesia a tenerlo in vita e a dargli vita.
Ad avvolgere le migliori poesie di questa raccolta è un’atmosfera soffusa di tenerezza, una perenne sistole e diastole che governano le intermittenze del sentimento tra passato e presente.
Un presente scandito dalle stazioni della seconda sezione, in cui l’osservazione minuziosa dei pendolari, di una ragazza che il poeta non rivedrà mai più o di una donna che “aspetta il treno della felicità / che coincide con un orario eterno” si fonde all’interrogazione sul destino proprio e dell’umanità anonima che lo circonda. Siamo nei territori congeniali al poeta, dove la quotidianità sembra sempre preludere ad un ulteriore stadio del pensiero e del sentimento (“una coincidenza di treni locali / per l’aldilà che precede l’ora di pranzo”).
Nella terza sezione il mito dell’infanzia si estende a quello dell’adolescenza (“il sogno è nel sogno di un’altra adolescenza”); vi trovano spazio anche le poesie sui Natali d’infanzia: la dolcezza del ricordo nelle descrizioni liriche si alterna all’amara consapevolezza di stagioni irrimediabilmente perdute (“anni piegati come le tovaglie /sagome bloccate sulle sedie /e sulle mattonelle esanimi”: un’immagine che ricorda la pittura metafisica). Come nella prima parte Moscè, attraverso la personificazione degli oggetti appartenuti al padre, tentava di catturare tracce dell’umanità del padre; così nelle sezioni successive cerca di rivivificare un passato dal paesaggio desolato, perchè irrecuperabile.
La raccolta si chiude con le due sezioni finali: la prima riguardante un periodo di degenza ospedaliera del poeta; la seconda incentrata sulla visita all’ex manicomio di Perugia. In entrambe Moscè presenta un’umanità variegata, preferibilmente còlta nella sua dimensione individuale: l’osservazione attenta, particolareggiata, è guidata da un profondo senso di pietas che affratella il poeta agli ospiti delle strutture. Un’ulteriore prova dell’intensità evocativa di una lingua piana, che non si scompone, ma intimamente mossa dal dolore. Una voce che chiede a sè stessa di sottrarre un’immagine, un ricordo alla rapina implacabile del tempo.
Ezio Settembri