ALESSANDRO MOSCE’ E IL PASSAGGIO DEL TEMPO

 da “Via Po”, 22 luglio 2017

La poesia di Alessandro Moscè parte sempre da un dato reale. “Moscè fotografa momenti quotidiani con la pacatezza di chi non vuole giudicare né vuole farsi coinvolgere o sorprendere dalla realtà”, scrive Alessandro Canzian nella nota introduttiva a Finché l’alba non rischiara le ringhiere”. La realtà insomma è lì, pronta per essere ascoltata, ma nel contempo è qualcosa d’altro, come sempre accade in poesia, è cioè un patrimonio a cui attingere, ma che si codifica e si ristruttura di volta in volta: “Ricarica l’orologio e lascialo andare: / si fermerà per attenderci nella tregua del sogno / e della verità del nostro amore salvato”. La poesia ferma il tempo, ne ripercorre sussulti e ossessioni fino a tracciarne i confini, perché la vita si ferma proprio sul confine del ricordo: la radiocronaca della partita, se Giorgio Chinaglia segnava, e l’infanzia che torna nelle domeniche di sport e di incontri parentali, un’infanzia che si ripropone con i suoi riti, la squadra del cuore, che non è soltanto una semplice passione sportiva, ma una continua risorsa, una via di uscita dal male. Eccola allora la realtà, che poi diventa mito salvifico, come nel suo romanzo Il talento della malattia. Scrivere è ridare peso all’esperienza, ma con una luce nuova, dove le parole costruiscono e definiscono, ritagliano tempi e dolori, presenze e assenze. Nelle tracce del mondo, dove i vivi ritrovano i morti, “di vicolo in vicolo e di balcone in balcone / finché l’alba non rischiara le ringhiere / e le voci dei nonni che fumano e giocano a tresette”. L’autore correrà per vederli, li cercherà, “ma la pioggia li avrà già cancellati”. Le immagini del passato sono fotogrammi minimi, eppure parlano ancora dentro il tempo presente, la loro voce si sente ancora: “Nonno, guardiamoci, dammi ancora la mano / come quando ero piccolo, / come quella volta sul San Vicino… ”. È di questo passaggio del tempo che ci parla Moscè, perché ogni coscienza diventa un destino. Per poi dire che con l’età cambia la percezione: la gioia e il dolore acquistano un altro significato. Se “ogni giorno apre una ferita nell’uomo e nella donna”, è anche vero che la vita è aprire spazi e guardare avanti. Guardare avanti è darsi un orizzonte, sopravvivere a ogni morte, dire che farcela è possibile: “Non c’è mai un’ora del lupo per te / che fai tremare d’orgoglio / chi è morto e risorto, due, tre volte”. E ogni volta è necessario stupirsi, fermarsi a guardare, esserci, testimoniare di una scena vissuta: un vecchio con i baffi zuccherati, il bagnino con la Gazzetta sul tavolino, e le giovani ventenni chiassose, le migliori, che esibiscono la loro voglia di vivere e di apparire. “Sei della razza di chi non ha paura di spogliarsi / della cinta bucata dell’anima”. È a questa Esterina dei nostri tempi che Moscè affida il compito di testimoniare la giovinezza, specchio di sé nel ricordo, anche quando nelle corsie di ospedale solo le voci tronche affiorano alla memoria. La vita è “qui dove morire è esistere”, dentro l’immagine di un’adolescenza ansiosa di fermarsi, nella gabbia dei vent’anni e di una giovinezza ormai perduta. Ma pure lo specchio “ci rifletterà felici / nei giorni che verranno…”, tra la possibilità di qualcosa che accadrà e il sogno, perché la realtà si nutre anche di questo rimando continuo in noi tra il tempo e i tempi.

Alberto Toni

 

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