VIRGINIA RAGGI E I TETTI FELLINIANI

Il Sindaco di Roma Virginia Raggi che accede ai tetti di Roma, è un’immagine anacronistica, certamente non politica. E’ un’inquadratura surreale che potrebbe essere inserita in un film di Paolo Sorrentino, che avrebbe potuto chiudere o aprire La grande bellezza e la nuova pellicola The young Pope. Roma è una città nella città, come scriveva Alberto Bevilacqua che ne esplorava i segreti notturni, le prime ore dell’alba, i personaggi più stravaganti. Roma Califfa, il suo ultimo libro edito da Mondadori nel 2014, contiene ritratti di chi tenta l’avventura sulle sponde del Tevere e si insedia all’improvviso nella città eterna come tanti italiani, tra speranze, sogni, anni di vita. Viene descritta la Roma antica di Adriano o di Vespasiano, la Roma papalina e del boom economico degli anni di Cinecittà, fino ad apparizioni sulfuree, ad incursioni nella capitale tormentata del Duemila. Alberto Bevilacqua sapeva incantare anche narrando gli incontri: memorabili quelli con Charlie Chaplin, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi. Virginia Raggi in cima ad un tetto che sovrasta dal Campidoglio la Roma di oggi, Mafia Capitale, la monumentalità e il tempo sospeso della storia, ha qualcosa di poetico, perché è un gesto del tutto inattuale. Seduta, con un tailleur blu, i tacchi molto alti, i fogli in mano, lo sguardo teso, questa donna giovane che proviene dal nulla, ha affascinato specie quando ha cercato di salire più in alto, dove “la vista è bellissima”, ha riferito. Dice che lo fa spesso, e quasi sempre da sola. Potrebbe sembrare una Califfa. Un fotoreporter portoghese l’ha immortalata con il capo-segreteria del Comune. Virginia Raggi ha una bellezza atipica, pensosa. Un corpo rigido e il viso magro della ragazza della porta accanto. Ma nessuno, prima di lei, saliva sui tetti come un personaggio felliniano, seduta sulle scale anti incendio, in un venerdì mattina come un altro di questo autunno. Dietro la gogna mediatica c’è un gesto che la qualifica come una protagonista niente affatto attonita o turbata. Si esprime come farebbe con l’uomo della strada, senza fronzoli. Non ha vezzi. Ma quella solitudine in cima al tetto conserva un’aurea. Potremmo immaginarla anche in un sotterraneo, in un cunicolo, vista dal Foro romano, dal Palatino, dalla “cordonata” di accesso alla Piazza del Campidoglio, con le statue dei Dioscuri. Virginia Raggi, in quello scatto ombroso, ricorda vagamente il personaggio di Hubert Selby jr nel romanzo Il canto silenzioso della neve (Feltrinelli 2010) in cui in un caotico e febbrile scenario metropolitano, filtra a sorpresa un raggio di sole. Il Sindaco sembra ritrovare se stessa più che Roma, come nel feroce contesto americano, lo scrittore raccoglieva la propria interiorità scevra dallo smarrimento dell’umanità circostante, dalle brutture di un compromesso, dallo svilimento di una truffa, di un dileggio. Il silenzio dei tetti conta più del vociare scomposto. Non sentire e non vedere più nulla, ma assentarsi tra l’azzurro e il grigio atmosferico, vuol dire avere in mano ancora qualcosa da plasmare. Avere in mano il proprio destino di uomo o di donna. Scrive Hubert Selby jr. “Si rese conto che era invaso dal calore della felicità. Non era la gioia di qualche attimo prima ma una felicità che non provava da quelli che sembravano moltissimi anni, anche se qualcosa gli diceva che si trattava solo di mesi. Una felicità che aveva vissuto a lungo, una felicità che credeva finita per sempre”. Non sarà successo questo al Sindaco di Roma, ma il suo estraniarsi ci è parso un esempio perfetto di distanza benefica che si annida al di sopra dei palazzi romani, in qualcosa di errante, posto ad un livello superiore rispetto alle discussioni strumentali del piano di sotto, quello di un Consiglio comunale inutile come tanti. E’ questo il canto silenzioso dei cieli di Roma.

Alessandro Moscè

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